A lezione di FELICITA’, la parola allo psicoanalista

di Giuseppe Maiolo

Ha fatto il giro del mondo la notizia che nell’Università di Yale, una delle più prestigiose del mondo, è stato avviato un corso sulla  “felicità” e più di mille studenti si sono iscritti in pochissimo tempo.  Forse è il segno che vi è tra i giovani un acuto bisogno di speranza e parallelamente  un grande timore per  le sconfitte e l’infelicità.
In realtà il corso, il cui titolo è “Psicologia della buona vita” ha come obiettivo quello di insegnare agli studenti universitari come vivere bene e superare disagio e stress che, con sempre maggiore frequenza, vengono segnalati all’Università da un aumento di richieste di aiuto e sostegno psicologico.
Il successo di questo seminario però pone alcuni interrogativi. Forse è dovuto al fatto che nelle Università si parla poco di questo tema? O che gli insegnamenti, anche nelle facoltà di psicologia e scienze cognitive, riguardano per lo più la psicopatologia e lo sviluppo dell’individuo,  il suo comportamento e i possibili interventi terapeutici? O forse potrebbe essere che un corso come questo promette strategie e sistemi accattivanti per liberarsi delle varie infelicità quotidiane ed esistenziali?
Che ci sia oggi nella società un grande bisogno di benessere, è indubbio. Ma è innegabile che nel nostro tempo l’idea della felicità viene solitamente associata alla realizzazione professionale, ad una certa efficienza personale, all’immagine sociale da raggiungere e ad un determinato benessere economico. Contemporaneamente si è portati a credere che star bene ed essere felici siano condizioni che si possono acquistare sul mercato globale  o merce il cui utilizzo è subito disponibile basta avere la ricetta in tasca.
Negli Stati Uniti, dove da anni si tengono corsi di “Psicologia positiva” in cui si distribuiscono suggerimenti e indicazioni su come essere felici e soddisfatti e si fanno proposte comportamentali per raggiungere l’efficienza psicofisica e l’autorealizzazione, è ampiamente diffusa l’idea che ci possano essere guide pratiche da applicare in modo pedissequo per affrancarsi dall’infelicità. Lo testimonia un ricchissimo mercato di pubblicazioni chiamate self-help, spesso best-seller, che vengono proposte come manuali di metodi infallibili per il raggiungimento della felicità.
Se non c’è nulla da obiettare a chi cerca quello che serve per vivere un’esistenza con gioia, piena di fiducia e ottimismo, è viceversa dubbioso che si possa insegnare come essere felici. Potrebbe invece risultare ingannevole fornire alle nuove generazioni l’idea che vi siano formule già pronte per star bene con se stessi e con gli altri e che basti un corso universitario per sentirsi realizzati.
Secondo Aristotele la felicità consiste nella realizzazione di quello che si è piuttosto che quello che ci dicono o ci chiedono gli altri. E solitamente è una ricerca complessa e impegnativa. Forse un po’ di più di quello che può essere un corso universitario. Ai giovani credo che non servano tanto suggerimenti e consigli “pronto uso” su come comportarsi o sul che fare, meno che meno manifesti che mostrino gli ingredienti per avere una vita positiva e affermata, quanto piuttosto più domande e meno risposte.
Servono a scuola come all’università, maggiori opportunità di riflessione per sviluppare un pensiero critico e autonomo e poi laboratori esperienziali dove sperimentare le proprie competenze emotive e far emergere quelle personali risorse che consentono di far fronte alle avversità della vita e costruire un autentico sentimento di felicità.

Foto, prof. giuseppe Maiolo, docente di psicologia delle età della vita Università di trento

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