Sanno tutto i pollicini della rete. Ma allora perché si fanno adescare child grooming?

Una bella domanda, alla quale risponde lo psicoanalista.

di Giuseppe Maiolo.

Li incontro quasi ogni giorno ormai, andando nelle scuole e parlando con loro di Internet, dei social, delle attività che si fanno e dei rischi che si possono correre in rete. Sono i nativi digitali che io chiamo i pollicini, perché ad una velocità impressionante per me, tardivo digitale, messaggiano e chattano ovunque si trovino.

Sanno tutto, o quasi, di quello che si può fare in Internet e conoscono bene cosa è necessario evitare e quello che può essere pericoloso. Gli pongo delle questioni e mi rispondono.

Espongo loro i mie dubbi tecnologici e mi danno indicazioni, spesso consigli azzeccati.

Parliamo dei Social e delle chat, della necessità di stare attenti a non postare dati personali, foto, messaggi offensivi e tutti in genere mostrano di sapere come comportarsi. Se chiedi loro cos’è il bullismo e il cyberbullismo, ti dicono esattamente cos’è magari a partire da esperienze personali che hanno fatto un po’ tutti prima o poi.

Ma allora mi chiedo: come mai continuano a cadere nella rete dei malintenzionati che abilmente li attraggono con le strategie più pervasive di adescamento che oggi chiamiamo child grooming?

Mi domando perché continuano a postare foto personali in pose particolari o per quale motivo bambini e ragazzini continuano ad essere vittime di cyberbulli. Mi chiedo soprattutto perché aumentano i bulli e le bulle on line che minacciano e diffamano, che offendono e ridicolizzano? Eppure sono informati e apparentemente consapevoli delle cose positive e di quelle negative che si possono fare.

Penso che quello che non conoscono sono i limiti. Non sanno quando e dove ci si deve fermare prima che sia troppo tardi. Non hanno strumenti per autoregolarsi e contenere le passioni che in ogni momento si possono sprigionare in rete. Anzi non hanno nel loro apparato cognitivo un nome utile a definire quello che provano, una parola di significato che serva per dirti che sentono dolore o rabbia, paura o gioia. Sentono, o meglio percepiscono, solo l’adrenalina che entra in circolo di colpo e senza preavviso, che eccita tutto il corpo e ti fa provare qualcosa che permette di vincere la noia, senza peraltro averne mai fatto una reale esperienza. Viceversa la rifuggono perché noi come “tardivi digitali” non gliela abbiamo mai consentita, subissandoli di impegni e di cose da fare.

E poi mi vien da dire che noi adulti, educatori e genitori, non ci siamo presi il tempo e la voglia di educarli a conoscere le emozioni, esprimerle e chiamarle per nome senza doverle trasformare in tante faccine stucchevoli. Abbiamo dato, a dismisura, importanza al piano cognitivo trascurando quel nascosto territorio della vita interiore che aziona comportamenti e risposte reali che di solito utilizziamo anche nel mondo virtuale.

Penso che ci si debba riprendere il coraggio di educare i bambini e gli adolescenti al senso del limite, dicendo loro con chiarezza dove stanno i confini, e noi per primi rispettarli. Il coraggio di educare con i fatti e non con le parole. Non si tratta di “predicare” ma di osservare noi prima di tutto le regole base del comportamento on line come ad esempio non postare in rete tutte le loro foto, di non spettegolare nei gruppi di whatsapp e rispettare le posizioni e i sentimenti altrui. Serve il coraggio della coerenza e della condivisione reale.

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