Unioni civili e Chiesa: una riflessione

Unioni civili e Chiesa: una riflessione

Di Simonetta Giovannini

Il dibattito recente e ancora in corso sulla legge Cirinnà a proposito delle unioni civili ha visto contrapporsi nell’agone politico e nella pubblica opinione due diversi schieramenti che, come ha scritto Christian Raimo su Internazionale, “con brutta approssimazione” possiamo definire “per i diritti civili” e “per la famiglia tradizionale”. Il secondo schieramento, quello, per intenderci, delle sentinelle in piedi e dei Family Day, è stato spesso più o meno arbitrariamente identificato con “i cattolici”. A volte col beneficio dell’attributo “tradizionalisti”. Si ha un bel dire che questa parte – e nemmeno nella sua totalità di gruppo di pressione – rappresenta soltanto una componente nel variegato arcobaleno (ohibò!) del cattolicesimo nazionale. Si ha un bel dire che esistono altri cattolici che in quelle posizioni non si riconoscono. Cattolici progressisti e culturalisti. Consapevoli del fatto cioè che, senza negare l’importanza della biologia e della “natura” (una natura leggibile attraverso paradigmi che – dopo Galileo, dopo Darwin -non inamovibilmente devono rimanere gli stessi di Aristotele e San Tommaso) siamo – per natura !- esseri culturali, esseri cioè per i quali e nei quali la cultura ha almeno lo stesso peso dell’anatomia e della fisiologia. Cattolici decisi a difendere a oltranza il valore inestimabile della laicità, consci di come nelle Scritture non si trovi alcuna facile ricetta da introdurre tendenziosamente in un confronto democratico che richiede invece argomentazioni razionali e mediazioni. Cattolici che sanno come a fianco dei supercitati e bellissimi brani della Genesi sulla complementarità uomo/donna (maschio e femmina li creò), di continuo esibiti nello stile dei dicta probantia a sostegno della coppia e della famiglia tradizionali, si potrebbe produrne molti altri, neotestamentari, in cui la priorità del sangue e dei vincoli biologici e familiari è provocatoriamente messa in discussione da Gesù stesso (“Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti ecc.”, “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la mia parola” ecc., solo per riportarne, così a braccio, un paio). Cattolici che rivendicano il tanto spesso disatteso primato della coscienza e la conseguente libertà di autodeterminazione. Cattolici serenamente accettanti il fatto che dai tempi non troppo remoti in cui la società italiana era, almeno nell’esteriorità di una vernice culturale condivisa, maggioritariamente cattolica a oggi, molta, moltissima acqua è passata sotto i ponti. Cattolici che, senza magari avere la strumentazione dottrinale necessaria per affrontare sistematicamente alcune delle succitate questioni, capiscono che la vita in atto è più importante e preziosa delle griglie in cui cerchiamo di incapsularla, e che (tanto per esemplificare), la bambina della condomina lesbica che convive con la propria compagna deve pertanto avere gli stessi diritti dei loro figli.

Senza parlare dei cattolici che hanno scelto di vivere alla luce del sole la propria omosessualità, tuttavia non rinunciando al loro accidentato cammino nell’alveo di una chiesa spesso omofoba, talvolta in malafede come attestano le inchieste sull’omosessualità vissuta clandestinamente da tanti esponenti del clero cattolico.

Si ha un bel dire. L’impressione mediatica tuttavia è che quando questi altri cattolici si esprimono pubblicamente (sovente su riviste anche prestigiose ma di nicchia) risultino, come ha ben detto la filosofa Roberta De Monticelli in una sua indignata intervista dello scorso ottobre, voci testimoniali e isolate. Che i soli cattolici DOC, visibili e accreditati dalla gerarchia ecclesiastica siano quelli del Family Day. Quelli a cui gli atei devoti del centrodestra stile Ferrara fanno l’occhiolino.

Nel calderone della confusissima battaglia d’opinione che ha avuto luogo sono precipitati temi diversi e di variabile portata, dalla libertà di coscienza e di autodeterminazione, alla preoccupazione per l’affidabilità genitoriale delle coppie non tradizionali, alla legittimità etica e giuridica delle gravidanze “per procura”, alla quanto mai travisata e fraintesa questione del “gender” e dei ruoli legati al genere. Sono state sollevate annose e persino secolari questioni su cosa debba e possa ritenersi contro natura. Il tutto (e da entrambi gli schieramenti) spesso a colpi di slogan e di stereotipi tagliati con l’accetta.

Senza entrare nel merito di questi diversi aspetti (ci vorrebbe ben altro spazio e del resto alcuni l’hanno fatto con dovizia di argomenti, spesso inascoltati) rimane – a una cattolica quale continuo a considerarmi –una riflessione di fondo: l’approssimazione, la rabbia e la violenza che spesso hanno caratterizzato la contrapposizione pubblica dei diversi punti di vista è anche una conseguenza dell’illiberalità del clima intraecclesiale che ha impedito nei decenni passati un confronto aperto e non a priori inficiato da interdizioni e sospetti sui temi che oggi ci interpellano con un’urgenza incapace di tollerare ulteriori rinvii. L’autoreferenzialità è forse la più grande tentazione di ogni istituzione e la chiesa cattolica non si sottrae a questa ipoteca. La domanda – non nuova -è: vogliamo essere chiesa nel mondo e per il mondo, o una setta che teme, lasciandosi interpellare dalle nuove forme di socialità e di famiglia che proliferano nel nostro tempo, di mettere a repentaglio la propria identità tradizionale, narcisisticamente intesa? Penso che la risposta a questa domanda dovrebbe essere prioritaria. Dopodiché non si tratta, da parte del magistero, di avallare o “battezzare” ogni comportamento o ogni opzione presente e possibile nella società, evitando i contrasti e i conflitti. Non è proprio il caso, tantomeno in un contesto simile, di negare o di omologare le differenze. Si può e si deve discutere. Di natura e di cultura, di libertà e di vincolo morale, di bene e di male, di giustizia e di ingiustizia, di desideri, diritti e doveri, di genere e di ruoli. Dentro la chiesa cattolica e nel dialogo (interconfessionale, ecumenico e con le diverse componenti della società civile.) Ma bisogna volerlo fare. Bisognava volerlo fare già molto tempo fa. È già tardi. Mai troppo, si spera.

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