Muoio dal ridere o rido per non piangere?

di Pinuccia Di Gesaro  e Giuseppe Maiolo

La prima volta che ho sentito valorizzare il riso come linguaggio espressivo è stato nei primi anni Settanta e nientemeno che da un personaggio che di lì a oltre vent’anni verrà insignito del premio Nobel per la letteratura italiana. Era Dario Fo, superbo interprete della sua giullarata “Mistero buffo”. Il riso, la risata, anche la sghignazzata dissacratoria fanno una funzione dissacratoria decisiva, spiegava il grande attore, oltre che intellettuale, accompagnando sul palcoscenico le sue parole con la sua insuperabile gestualità corporea e mimica facciale.

Il riso apre l’intelligenza e spalanca i pensieri, apre alla vita e all’ottimismo – diceva dal palcoscenico del teatro di Piazza Gries a Bolzano – mentre la tristezza e i pensieri negativi ottundono,  chiudono alla comprensione del mondo, isolano la persona nella sua angoscia. Non saranno state esattamente queste le sue parole, ma questo ne era il senso autentico.

Che mi stupì. Perché questo concetto non mi era mai stato così lucido. Solo a partire dagli anni Settanta fu infatti riscoperto dagli studiosi il ruolo del riso dissacrante e liberatorio nella letteratura popolare della millenaria storia delle classi subalterne.

Pubblichiamo volentieri un contributo dello psicoanalista Giuseppe Maiolo sulla funzione del riso nella psicoanalisi di cui Freud  teorizzò la grande importanza scientifica e le successive implicazioni terapeutiche.

p.d.g.

“L’umorismo non è rassegnato ma ribelle, rappresenta il trionfo non solo dell’Io, ma anche del principio del piacere, che qui sa affermarsi contro le avversità delle circostanze”  Chi scriveva queste parole era Sigmund Freud uno dei più seri studiosi dell’uomo è un attento osservatore della vita è delle mille sfaccettature con cui ciascuno di noi la affronta.

La valorizzazione dell’umorismo che fa il padre della psicoanalisi ci ricorda che tra gli strumenti più potenti in nostro possesso e utili a contrastare i momenti critici e i disagi della vita vi è la capacità tutta umana di ridere. Il sorriso, e più ancora la risata, originati da complessi meccanismi fisiologici, attivano reazioni e processi benefici che sono ormai confermati da numerosi studi scientifici. Ridere fa bene perché mobilizza diversi gruppi muscolari, stimola l’attività cardiocircolatoria e le funzioni respiratorie, promuove la produzione di ormoni utili per contrastare lo stress e migliorare la risposta del sistema immunitario. Ridere è terapeutico in quanto aiuta naturalmente a ridurre gli stati ansioso-depressivi e a migliora l’interazione sociale.

Censurata per secoli perché ritenuta patrimonio degli stolti ed espressione di volgarità, la risata è stata spesso  equiparata alla follia in quanto manifestazione di scarso controllo. Oggi invece gli studiosi sostengono che dovremmo ridere almeno 10 minuti al giorno piuttosto che quei pochi attimi  di sorrisi a denti stretti che la maggior parte di noi si consentono. Viviamo per lo più contratti in una corazza di serietà che ci accompagna ovunque, che ingessa i nostri muscoli e la nostra anima. L´homo ridens è un relitto,  dimenticato e sommerso dal convulso ritmare dei problemi e dei guai. Ci permettiamo di ridere solo in certe occasioni: in vacanza, a qualche festa o a carnevale. Per una volta all’anno, dicevano i latini, è consentito impazzire. Per il resto del tempo, obbedienti ai dettami e ai doveri, indossiamo  la maschera dei seriosi. 

Da bambini invece ci divertiamo con tutto e allegramente sappiamo esprimere  gioia e felicità. Al contrario, man mano che si cresce, per ridere abbiamo bisogno di una sempre maggiore quantità di stimoli. Non basta una battuta, una sollecitazione scherzosa, una smorfia. Ridere a squarciagola per molti rappresenta ancora un tabù. Sovente un divieto. Perché ridere e divertirsi, scherzare e, più ancora, cercare il senso del comico nell´esistenza ha qualcosa di infantile e di regressivo che ci si consente troppo poco perché ritenuto sconveniente.  In realtà è perché  abbiamo imparato a bloccare le emozioni, mantenendo rigido il viso. Allora per  liberarci di quella corazza rigida che ci siamo costruiti addosso, solitamente abbiamo bisogno di un “pass”, cioè di un pretesto e dell’autorizzazione a regredire a quel  bambino che ride, scherza, salta, si diverte.

Per ridere di gusto dobbiamo attenuare la nostra rigidezza, dobbiamo lasciarci andare e perdere il controllo del proprio corpo, attenuare quel “controllore” interno severo che non accetta facilmente di farci perdere la faccia. E il ridere bene coinvolge tutto il corpo e impone di lasciar emergere altri volti possibili, altri aspetti di noi.  Ridiamo poco  perché non sappiamo lasciarci andare  e ancor meno siamo capaci di  manifestare quello che proviamo anche se si tratta di  contentezza e gioia, divertimento e allegria. Eppure da sempre si dice che “il riso fa buon sangue”, o che “Se ridi ti passa”. Cioè ti passa la tristezza e il malessere del vivere quotidiano.

La lezione di Patch Adams, il medico che con il suo naso rosso ha girato il mondo immergendosi nelle più acute sofferenze della gente, che ha inventato la clownerie come strumento terapeutico per i bambini gravemente ammalati, ci fa dire quanto sia importante imparare a ridere per affrontare la vita con uno sguardo lieve. Non si tratta, come lui sostiene, di negare il dolore e la malattia, né di esorcizzare la sofferenza e la morte che pur fanno parte della realtà, quanto con il piacere di ridere  recuperare la gioia e la capacità di apprezzare l’esistenza anche quando si sta male. È questo potrebbe essere l’augurio migliore da scambiare  per il nuovo anno in arrivo.

g. m.

www.officina-benessere.it

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