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LA SOLIDARIETÀ TRADITA

6 Febbraio 2022

LA SOLIDARIETÀ TRADITA

Dopo più di cento anni di oblio, l’amara verità sugli aiuti del Trentino austriaco alle vittime del terremoto di Calabria del 1905. Lo scandalo di collette e iniziative pubbliche destinate alla povera gente che vennero prima inutilizzate e poi destinate a fini privati.
Una vicenda completamente dimenticata riportata alla luce da Maurizio Panizza, detective della Storia.
Sorprendendo nel sonno migliaia di persone, il terremoto arrivò all’improvviso con un’enorme potenza distruttiva, scuotendo fin dalle fondamenta i muri delle povere case e facendo in pochi secondi più di 500 morti e 3mila feriti.
Erano le 2.45 della notte tra il 7 e l’8 settembre del 1905, quando il terribile sisma colpì le coste tirreniche della Calabria radendo al suolo centinaia di paesi e mettendo in ginocchio le popolazioni della regione. Molte delle vittime furono dovute al crollo delle case della gente più povera, per lo più costruite con sassi e fango impastato con paglia. 

La tremenda scossa fu avvertita in tutta l’Italia centro-meridionale, da Roma sino in Sicilia. Purtroppo le terre del Sud non erano nuove a simili disastri, né lo sarebbero state neppure tre anni dopo quando sarebbe toccato a Messina, con più di 100 mila morti.
Eppure quel terremoto, pur nella sua tragica drammaticità, ebbe una nota positiva. Fu, infatti, la prima volta nella storia che i giornali italiani e stranieri scrissero in diretta, tramite i propri inviati, le cronache di quei giorni terribili dando il via ad una straordinaria gara di solidarietà.

Gli aiuti arrivarono da tutta Italia e pure dall’estero

Luigi Barzini, storico inviato del Corriere della Sera, scrisse l’11 settembre un editoriale in cui diceva: “In Calabria si muore. I danni del terremoto sono immensi, ma sono le vecchie piaghe della Calabria che li hanno fatti tali e che adesso rendono difficile ripararli”. Era un grido disperato di soccorso. In effetti, dall’Unità d’Italia in poi non c’erano stati grandi cambiamenti in Calabria. Sotto il governo giolittiano, il ministro Sonnino aveva sì prestato attenzione alla questione meridionale, ma favorendo i potenti ceti agrari sperando che le masse contadine ne avrebbero tratto vantaggio. La formula, piuttosto discutibile, non aveva però funzionato.
Il grido d’aiuto, comunque, fu raccolto in molte parti d’Italia e giunse pure al Nord, oltre confine, in Austria, dove in molti paesi del Sud Tirolo di lingua italiana (l’attuale Trentino) si costituirono immediatamente comitati per raccogliere fondi in aiuto delle popolazioni terremotate. Il primo a lanciare l’idea fu l’irredentista roveretano Arnaldo Tolomei (fratello del più tristemente noto Ettore, futuro senatore fascista), il quale da Roma scrisse immediatamente all’amico Giuseppe Silli, podestà di Trento, affinché il Trentino non perdesse l’occasione per manifestare la sua “solidale italianità” verso una regione del Regno bisognosa di aiuto. In breve si mobilitarono Trento e Rovereto, ma anche Riva del Garda, Arco e Ala, e la stessa cosa accadde nel vicino Veneto con numerose città fra cui Padova, Verona e Venezia.

In poco tempo, nacque così l’idea di costituire un “Comitato Veneto Trentino pro Calabria” per poter realizzare insieme un progetto di solidarietà per le popolazioni colpite dal sisma.
Il giornale trentino “La Voce Cattolica”, di cui era direttore un giovanissimo Alcide Degasperi, nell’edizione del 9 dicembre 1905 riportava la notizia in cronaca, annotando come i rappresentanti dei singoli comitati riunitisi a Verona, dopo lunga discussione avevano stabilito “che le somme raccolte sarebbero state destinate alla costruzione di un villaggio di case operaie per i poveri da intitolarsi Veneto-Trentino”.
Per la città di Trento – leggiamo – era presente il podestà Giuseppe Silli, per Rovereto l’avvocato Angelo Pinalli, mentre Alessandro Bottesini rappresentava il comitato di Riva del Garda ed Enrico Francescatti quello di Ala. La somma sin lì raccolta ammontava a 174.137 lire.
Dopo quell’incontro il Comitato non perse tempo e tramite le autorità calabresi vennero subito interpellate le amministrazioni locali. Dapprima il cospicuo contributo (circa 600 mila euro attuali, ma con un potere d’acquisto enormemente maggiore per l’epoca) venne proposto al piccolo comune di Terrati, il quale però venne presto escluso per via del tentativo di speculare sui terreni da vendersi al Comitato, quintuplicati di valore nel giro di pochi giorni.
Determinante fu allora l’intervento del deputato calabrese Luigi De Seta, che convinse il Comitato a scegliere come destinatario dei fondi, Cetraro, paese di 7 mila abitanti sulla costa tirrenica, a circa 20 chilometri a nord di Paola, il quale, a dire il vero, non aveva subito danni significativi come, ad esempio, Piscopio o Stefanaconi.Comunque sia, avviate le trattative con i modi e i tempi dettati dalla situazione, dieci mesi dopo – il 23 settembre 1906 – gli amministratori di Cetraro presero l’impegno di fornire gratuitamente il terreno su cui edificare il nuovo villaggio in riva al mare. Un terreno all’epoca acquitrinoso e malsano che necessitava di adeguata bonifica. Il Comitato Veneto Trentino, dal canto suo, avrebbe realizzato, oltre alla scuola e a una chiesa, 18 case antisismiche in muratura a due piani.

L’ardito progetto del nuovo villaggio

Nei mesi successivi i contatti con la Calabria si intensificarono e il Comitato fornì al Comune di Cetraro un primo progetto di ciò che si intendeva realizzare. L’idea originaria prevedeva la costruzione di quattro file di edifici posti a emiciclo attorno alla piazza centrale, a poche centinaia di metri dalla battigia. In seguito, invece, su richiesta dell’Amministrazione comunale si preferì costruire un quartiere più vicino ai gusti e alle tradizioni locali, con piazza centrale di forma rettangolare e gli edifici allineati in file parallele alla strada e alla ferrovia. Ciò che in sostanza è ancora oggi la Marina di Cetraro.
I vertici del Comitato erano composti dal Sindaco di Venezia, Filippo Grimani, Antonio Guglielmi Sindaco di Verona, Giuseppe Silli Podestà di Trento, il Presidente della deputazione Provinciale di Treviso e, infine, l’ingegnere Beppe Ravà, delegato tecnico quale alto funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici. Fu lo stesso Ravà che in data 5 marzo 1907 inviò al Comune di Cetraro copia dello Statuto per l’erezione in Ente morale del Comitato stesso. Il secondo articolo recitava: “Il Borgo che sorgerà su terreno donato dal Comune di Cetraro all’Ente Morale denominato “Comitato Veneto Trentino “Pro Calabria”, rimarrà in proprietà dell’Ente stesso e le case verranno concesse in locazione ai naturali meno abbienti del Comune predetto, e preferibilmente ai marinai e pescatori.”
Le motivazioni per cui il Comitato riservò a sé il controllo sul Borgo le troviamo in seguito in un verbale riservato dove si afferma fra l’altro che l’affitto chiesto agli assegnatari sarà molto “tenue” e che “data la non troppa moralità delle amministrazioni locali, si ritiene pericolosa la cessione delle case al comune”.
In effetti motivi per dubitare sui destini dell’opera pare ce ne fossero sin dall’inizio, in quanto, secondo previsioni riportate da alcuni giornali locali, il costruendo borgo marinaro avrebbe in breve tempo affossato economicamente una comunità già gravata di debiti ancora prima del sisma.


I commenti della stampa agli atti parlamentari del 1907

Nel frattempo è da dire che un’altra vicenda, ben più grave, era venuta a scuotere i palazzi della politica italiana. A Roma, infatti, il Governo Giolitti aveva istituito verso la fine del 1906 una Commissione d’inchiesta sulla gestione dei sussidi pro Calabria a capo della quale aveva messo proprio l’ingegner Ravà, delegato esecutivo del Comitato Veneto Trentino. Dagli atti parlamentari della seduta del 16 dicembre 1907 si evince che “l’inchiesta avrebbe dovuto accertare come erano stati erogati nelle Calabrie i fondi raccolti e come si era esplicata l’opera delle autorità a beneficio delle popolazioni colpite dal disastro”. Gli esiti della Commissione non potevano essere più disastrosi. Così si legge nei verbali: “L’inchiesta ha ben potuto accertare che in occasione del terremoto si è infranto il dovere civile dell’onestà e si è profanato il sentimento umano della carità”. Pure l’on. Luigi De Seta, che si era fatto da intermediario per la costruzione del Borgo Veneto Trentino, venne coinvolto nell’indagine in quanto il suo nome appariva più volte nei verbali della Commissione come uno di quelli che “in virtù dell’influenza politica esercitata aveva sperperato il denaro della beneficienza pubblica in favore degli abbienti”.

Il villaggio Veneto-Trentino quasi ultimato. A lato di ogni casa fu predisposto lo spazio per un piccolo orto familiare

A nulla, comunque, valsero le conclusioni della Commissione d’inchiesta la quale laconicamente testimoniò come nei lavori di ricostruzione “le baracche erano state la provvidenza per i poveri, mentre il restauro gratuito delle case la beneficenza per i ricchi”.  Alla fine non se ne fece nulla. Il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti arrivò solo a ribadire una precedente circolare che vietava in modo assoluto le riparazioni di fabbricati appartenenti a persone agiate. Questo fu l’unico risultato, anche se il provvedimento arrivò quando era ormai troppo tardi. Tornando con la nostra storia a Cetraro, il 31 maggio 1910 il sindaco Ferdinando De Caro portava in Consiglio la notizia che i lavori erano conclusi e che il Comitato aveva stabilito la data d’inaugurazione per il 10 luglio seguente. È da dire, però, che non tutto fino a quel momento era filato liscio.

Una veduta dall’alto del nuovo Borgo: diciotto palazzine, una scuola, una chiesa, una piazza

Infatti, lo storico prof. Leonardo Iozzi in una sua ricerca pubblicata nel 1999, ricorda come fin dal settembre del 1909 la controversa questione del Borgo San Marco (così venne chiamato il villaggio) avesse coinvolto l’intera comunità a tal punto che la polemica si trasformò in lotta feroce e calunniosa. Il mensile “Cetraro Nova”, soffiando sul fuoco, alimentava ulteriormente lo scontro con la Giunta comunale screditando l’opera e parlando addirittura “di assurde mostruosità edilizie, di triste opprimente sistema cellulare, di porcili, di case per una colonia di reclusi, di case con stanze come celle carcerarie, di stanzette soffocanti”.
Che la polemica innescata da “Cetraro Nova” fosse un pretesto di bassa lega e la costruzione del Borgo lo strumento per sfiduciare politicamente gli amministratori comunali è evidente, e ciò è dimostrato da un altro giornale, “L’Aurora”, che nelle stesse settimane uscì sostenendo un parere esattamente contrario: “La tecnica, per quanto riguarda l’esecuzione e la bontà dei materiali è d’una scrupolosità sorprendente. Esteticamente, per chi lo osserva dall’alto, il Borgo è armonioso nella sua semplice e spigliata bellezza”.

Una delle numerose palazzine ancora esistenti
in Borgo San Marco e regolarmente abitate

Alla fine, le continue polemiche e gli attacchi sconsiderati contribuirono al deterioramento dei rapporti fra il Comitato e l’Amministrazione locale. A luglio, infatti, non si fece nessuna festa d’inaugurazione. Il 10 novembre il giornale “L’Aurora” usciva con una notizia inaspettata: “La festa inaugurale, tanto attesa e tanto perseguitata dal fato, non avrà più luogo, ovvero si è già svolta a Roma in Montecitorio. Colà l’impresa costruttrice ha creduto convocare il Comitato esecutivo per consegnare alla sagace direttiva di esso, bello e finito, il nostro borgo S. Marco, che è ora la speranza più promettente della cittadinanza!” Tuttavia, nessuna assegnazione ebbe luogo in quei mesi, in quanto la martellante campagna denigratoria aveva suscitato dubbi e scoramento nei poveri pescatori, sempre più indecisi sulla scelta di una nuova abitazione.
Si dovette attendere la torrida estate del 1912 perché qualcuno accettasse di entrare in quelle case chiuse da più di due anni. Costoro, però, il giorno dopo restituirono le chiavi affermando che “era impossibile abitarvi perché a imposte chiuse si avvertiva un enorme calore”. Ma non era tutto. I soliti diffamatori, in un impeto distruttivo, arrivarono al punto di sostenere che a Cetraro la classe marinara non esisteva più perché estinta con le emigrazioni verso il Sud America, e che quindi, non potendo dar luogo a quanto previsto dallo Statuto, si doveva incentivare l’arrivo di potenziali assegnatari da fuori. Eppure documenti inoppugnabili confermano ancora oggi che in quegli anni erano più di 40 i pescatori in attività e che una decina rientrarono al più presto dall’Uruguay con le loro famiglie non appena seppero del villaggio in costruzione.

In collina, una bella veduta odierna di Cetraro, e più sotto, a livello del mare, Borgo San Marco-Marina di Cetraro

Il Comitato – disorientato di fronte a così tanti attacchi strumentali – per non lasciare nulla di intentato decise comunque di intervenire sulle case per far eseguire numerose migliorie. Poi, il 6 novembre 1915, deliberò lo scioglimento dell’Ente e l’assegnazione del patrimonio del Borgo al Comune di Cetraro: era la fine della collaborazione e del progetto di solidarietà veneto-trentino.
Per più di dieci anni le palazzine di Borgo San Marco rimasero abbandonate all’incuria del tempo, fino a quando, nell’ottobre del 1922, il Consiglio comunale non deliberò la loro vendita per appianare i deficit di bilancio. L’importo complessivo che l’operazione immobiliare portò nelle casse del Comune di Cetraro fu pari a 274.000 lire, “guadagnando” in tal modo sugli originari costi del terreno e su quanto offerto dal Comitato Veneto Trentino un’ulteriore somma di 75.000 lire, più di 100 mila euro attuali, una cifra notevole per quei tempi. Purtroppo con quei soldi non venne mai realizzato nessun edificio pubblico, né la Casa del Marinaio, già promessa in precedenza.
Leonardo Iozzi, ricercatore cetrarese già citato, scrisse nel suo saggio: “Le diciotto palazzine, costruite per essere “concesse in locazione ai meno abbienti” e “preferibilmente ai marinai-pescatori”, finirono, con regolari atti di vendita nelle mani della piccola e media borghesia e dei professionisti”.
Così, alla fine di quest’amara storia, al di là delle giuste valutazioni storiche, rimane il fatto inconfutabile che quegli amministratori comunali si resero responsabili di un atto estremamente grave sotto l’aspetto morale e l’impressione che si ricava leggendo quei documenti è che la vicenda fu gestita ad arte da diversi soggetti, ognuno interessato per proprio conto a ricavarne qualcosa.
Ma ciò che lascia ancor più l’amaro in bocca è il fatto che non furono solo i muri che fecero gridare allo scandalo in quegli anni, ma fu la stessa idea di solidarietà a venire compromessa, una solidarietà disinteressata giunta da molto lontano che però alla fine venne delusa, offesa e tradita.