Intrighi, spionaggi, rapine, loschi personaggi nazisti nella storia della ragazza dalla doppia identità incarcerata a Trento nel 1948.
(SECONDA PARTE)
Il barone, insomma, non era affatto una pedina di poco conto nella nomenclatura nazista, dal momento che il barone venne sfiorato dalla vicenda del fallito attentato a Hitler del 20 luglio del 1944. Essendo in amicizia con il generale Hans Oster, sottoposto dell’ammiraglio Wilhelm Canaris (entrambi giustiziati dopo l’attentato), il von Hoepfner pare avesse ricevuto dal generale e tenuto in custodia presso la sua villa in Merano i diari di Canaris. Diari che secondo quanto riportato dai giornali del tempo erano stati trafugati proprio in occasione della rapina.
Una figura, quella del von Hoepfner, evidentemente molto controversa dal momento che, sempre secondo l’imputata, da quel luglio del ‘44 in poi lui aveva deciso di cambiare bandiera e cioè “aveva iniziato ad esplicare attività spionistica in favore degli Alleati”. Che i benefici ottenuti nell’immediato dopoguerra fossero derivati proprio da questa sua collaborazione con i nuovi arrivati? Ai tempi del processo se lo chiedevano molti giornali e secondo loro la riprova non poteva che nascondersi dietro al fatto che su circa 50 mila domande di cittadinanza in attesa di essere valutate, il barone – come detto – nell’ottobre del ’46 diventava a tutti gli effetti cittadino italiano.
Ma non è tutto. I giornali di quelle settimane riferiscono che durante il processo, a domanda se lui fosse effettivamente “barone”, questi rispose di non poter sapere se in Italia il prefisso “von” si doveva ritenere titolo nobiliare. Affermava tuttavia di essere stato insignito per meriti propri della prestigiosa onorificenza di Grand’Ufficiale dalla Repubblica di San Marino. A tale proposito chi scrive ha voluto approfondire la questione interpellando direttamente la Segreteria di Stato per gli Affari Esteri della Repubblica di San Marino, la quale ha risposto che “risulta che al Sig. Alexander Von Hoepfner con Decreto del 31 agosto 1943 venne conferito il grado di Cavaliere Grand’Ufficiale dell’Ordine Equestre di Sant’Agata. La motivazione di tale conferimento è l’oblazione di Lire 40.000 effettuata dal Sig. Von Hoepfner”. Vale a dire che il “barone” l’onorificenza l’aveva semplicemente comprata.
L’imputata si confronta con il Presidente della Corte dott. Bertolani
Sempre secondo le testimonianze molto dettagliate della Ballasch, il von Hoepfner e il suo socio trafficavano anche in armi. “Io stessa, alla presenza di un ufficiale e di un soldato italiano – dichiarò la giovane – fui presente mentre venivano scaricate casse di munizioni nella cantina di una delle sedi della Imes, in via Savoia”. Oltre a questi particolari la ragazza testimonierà di altre analoghe circostanze descrivendo ogni volta il barone come un cinico faccendiere in affari sia con i fascisti che con i nazisti. Circostanze, è da dire, talmente dettagliate che solo chi le aveva vissuto di persona poteva conoscere.
Allo stesso modo, durante il processo la giovane racconterà della sua vita e delle vicissitudini da lei patite sia verso la fine della guerra che negli anni successivi. Ripercorrerà i giorni in cui nel marzo 1944 venne improvvisamente arrestata dalla Gestapo e portata in via Tasso con l’accusa di essere una spia. Ai piani superiori dell’edificio subì violente percosse e torture rimanendo qui reclusa per parecchie settimane e poi portata a Milano dove venne costretta a lavorare per i tedeschi in qualità di interprete. Questo fatto drammatico segnerà Elfi per sempre e le cicatrici di quelle torture verranno certificate da un medico legale nel corso del processo. Scoprì solo in seguito che furono i suoi “protettori” – Wolter e von Hoepfner – a denunciarla alle SS per poterle trafugare tutti i suoi beni. A proposito del Wolter è da dire che poco dopo la denuncia avanzata dalla Ballasch alla fine del 1946 contro il barone e contro di lui, improvvisamente sparì dalla circolazione. Scriveva infatti uno dei giornali locali: “Si seppe che si era imbarcato alla volta del Brasile, di dove non ha più dato nuove di sé. Quella fuga precipitosa fa naturalmente pensare che non si sentisse affatto tranquillo, tanto che aveva abbandonato in mano alle autorità tutti i gioielli sequestrati al momento del fermo”.
Evelyn von Pless
Gli interrogatori dei testimoni e le lunghe narrazioni dell’imputata fecero sì che il processo si rivelasse più lungo del previsto. Se dapprima la sedicente principessa aveva attirato su di sé le simpatie dell’opinione pubblica, via via che il procedimento andava avanti con nuove testimonianze portate dall’accusa (testimonianze compiacenti, secondo alcuni), il potere mediatico del barone diventava sempre più soverchiante nei confronti dell’imputata. Lui, asciutto ed elegante in completo grigio e cappello di paglia, guardava con occhio torvo la ragazza, imperturbabile. Esasperata e da sola contro tutti, Elfi si difendeva come un leone non risparmiando a nessuno quanto la sua giovane età e il suo forte carattere le suggerivano di dire. Come quel giorno che in aula gridò in faccia al suo accusatore: “Lei è un criminale. Sa perfettamente che se dopo la guerra fosse tornato in Germania l’avrebbero subito impiccato”. E al giudice istruttore che la richiamava severamente all’ordine, Elfi replicava accusandolo di essersi rifiutato di sentire i testi da lei portati a suo discarico e pronunciava queste parole: “Lei signor giudice lavora per l’Hoepfner, è pagato da lui contro di me.
Il durissimo sfogo della principessa non poteva ovviamente passare indenne: all’atto della sentenza finale quelle parole costeranno alla ragazza una condanna a otto mesi di reclusione per “offesa all’onore e al prestigio del giudice istruttore”.
Milano, via San Zeno. In casa Lavatelli aveva abitato Evelyn per parecchi mesi
Da parte sua – è da aggiungere – c’erano comunque fondati motivi per reclamare giustizia a gran voce perché neppure la testimonianza più importante a suo favore – il cosiddetto “alibi di ferro” – venne presa in considerazione dalla corte. Purtroppo per salvare Sonja (o Evelyn, che dir si voglia) non serviranno a nulla nemmeno le deposizioni dei componenti la famiglia Lavatelli di Milano (padre, madre e figlio), presso la quale già nel 1945 la ragazza aveva preso in affitto una camera in via San Zeno. Costoro testimoniarono che la notte in cui avvenne il fatto criminoso a Merano, la giovane era rientrata regolarmente in casa ben prima delle ventitré, circostanza, questa che avrebbe reso assolutamente impossibile la sua contemporanea presenza sul luogo della rapina. Ma non furono creduti.
Maria Hausbergher
Nonostante fossero passati quasi due anni dall’arresto della principessa le indiscrezioni e le ipotesi sulla sua identità continuavano regolarmente a riempire le pagine dei giornali locali. A livello nazionale pure il settimanale “Oggi” aveva dedicato un lungo servizio alla misteriosa ragazza e così aveva fatto anche il “Corriere della Sera”. Quest’ultimo, il 9 giugno del 1950, titolava in cronaca: «Crescono gli ammiratori della “principessa polacca”. Ogni giorno ella riceve omaggi floreali in carcere». In effetti l’aula del Tribunale di Bolzano era sempre affollata di comuni cittadini, ma c’erano anche alcune nobildonne di Trento che avevano imparato ad apprezzare quella misteriosa principessa di alto rango che veniva da lontano e che sapeva parlare ben cinque lingue. Fra queste aristocratiche sappiamo che la contessa Giulia Thun di Trento strinse con lei un’affettuosa amicizia per corrispondenza. Stessa cosa fece anche la signora Maria Bort in Hausbergher alla quale (grazie al tramite del nipote Luciano) oggi si deve gran parte del materiale utilizzato per questa indagine, soprattutto molti articoli di stampa dell’epoca e lettere scambiate con Elfi durante la sua prigionia.
Ma come mai la signora Hausbergher conosceva l’imputata? Da quanto è dato di sapere, pare che il marito avesse fatto dei lavori edilizi all’interno della casa circondariale e che in questo modo fosse entrato in contatto con la Ballasch già dai primi giorni della sua carcerazione. Di lei, l’uomo ne aveva poi parlato con la moglie la quale impietosita dal fatto che quella ragazza straniera non avesse qui alcun amico o parente, iniziò ad avviare con lei una fitta corrispondenza epistolare diventando per Elfi un prezioso punto di riferimento, per certi versi quasi la mamma che lei non aveva mai avuto. Durante la lunga detenzione preventiva, sappiamo che la giovane si era dedicata al ricamo, alla lettura, ma anche allo studio della religione. Il giorno dell’Epifania del 1949 Evelyn aveva deciso di abbracciare la religione cattolica e ricevuto presso il carcere di Trento i sacramenti del battesimo, della comunione e della cresima, officiati alla presenza del vescovo Oreste Rauzi e “di un discreto gruppo di contesse e baronesse, alcune giunte per l’occasione da Milano”. Una presenza in carcere del tutto irrituale che forse per la Chiesa e per la società trentina stavano a confermare implicitamente la verità in merito all’alto lignaggio della giovane.
Il “ricordo” dei sacramenti ricevuti in carcere da Evelyn
Il “Corriere tridentino” del 7 gennaio scriveva in proposito: “Ieri, durante una breve e suggestiva cerimonia alla quale hanno preso parte una quindicina di persone, Evelina von Pless è stata battezzata dal suo catechista don Heppergher. Padrini della neofita erano i coniugi Maria e Alfredo Usbergher. Dopo la comunione il vescovo ausiliario mons. Rauzi le ha impartito la cresima”. In merito a quest’ultimo particolare, chissà per quale motivo il “Corriere” non aggiunse che la madrina di cresima fu la contessa Thun. Vero è, comunque, che Evelina venne battezzata con l’aggiunta dei nomi Giulia e Maria proprio in segno di riconoscenza nei confronti delle sue benefattrici.
La foto di Elfi pubblicata sui giornali
(Fine seconda parte. La terza e ultima parte si trova a questo link)