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Cosa c’è dietro la “internazionalizzazione” dell’Università italiana: la voce critica del professor Luca Marini

11 Febbraio 2024

Cosa c’è dietro la “internazionalizzazione” dell’Università italiana: la voce critica del professor Luca Marini

In Italia, sempre più facoltà universitarie, corsi di laurea e insegnamenti si tengono in lingua inglese. Questione di prestigio, di interessi di bottega o degli effetti di una globalizzazione sempre più controversa? Chiariamo subito: conoscere più lingue, nel 2024, è una necessità imprescindibile per gli studenti che volessero lavorare all’estero. Non si tratta quindi di sminuire l’importanza delle lingue, ma di capire se la “internazionalizzazione” talvolta esasperata di molti Atenei conduca davvero a un arricchimento culturale degli studenti o non mascheri, piuttosto, altre strategie e altri obiettivi. Ne parliamo con il professor Luca Marini, docente di diritto internazionale all’università ‘La Sapienza’ di Roma, noto critico della spirale europeista e globalista.
 
Professore, è innegabile che la conoscenza delle lingue rappresenta una forma di arricchimento culturale. Tuttavia, quando tutti studieranno prevalentemente in inglese, che fine faranno i licei classici, la lingua di Dante, gli idiomi regionali, la cultura, l’identità e finanche la cucina italiana?
 
“Questo non deve chiederlo a me, ma ai miei colleghi desiderosi di insegnare esclusivamente in lingua inglese o di afferire a corsi di laurea creati espressamente per fornire un’offerta didattica in lingua inglese: corsi che, magari, trovano la loro ragion d’essere più che altro nei finanziamenti all’uopo previsti, che siano il PNRR o altri ancora. In ogni caso Lei ha ragione: sarebbe interessante, e significativo anche dal punto di vista statistico, chiedersi quanti di questi colleghi abbiano fatto studi classici”.
 
Ma tutti questi corsi di laurea in lingua inglese hanno poi una reale utilità?
 
“Dipende dalla prospettiva in cui ci si colloca. È innegabile che i corsi in questione finiscono di fatto per essere utilizzati anche allo scopo di pianificare concorsi e carriere di una parte dei docenti, secondo una spirale viziosa abitualmente spacciata per virtuosa perché pudicamente coperta dal velo della “internazionalizzazione”. Ma dal punto di vista formativo, e quindi degli studenti, ho qualche dubbio: ci sono Atenei che hanno fino a 35 corsi di laurea interamente in inglese e decine con almeno un curriculum in inglese; molti di questi corsi hanno titoli vaghi e fumosi o sono mere duplicazioni dei corsi in italiano; sono quasi sempre di livello inferiore ai corsi in italiano anche perché si rivolgono a un pubblico eterogeneo, che ha competenze di base non paragonabili a quelle fornite, ad esempio, dal liceo classico italiano, che all’estero non esiste e che – temo – in Italia prima o poi sparirà; e il risultato formativo finale è di conseguenza molto basso, diciamo in linea con quello mediamente esistente all’estero e che tradizionalmente dava la misura, a nostro vantaggio, del divario tra la formazione degli studenti italiani e quelli stranieri. Ora questo divario si colmerà, ma livellando verso il basso, in Italia, formazione e cultura”.
 
Il Bel Paese ha dato i natali a giganti della cultura, della scienza, della tecnica, dell’arte e dello sport. Tuttavia, si è imposta la tendenza a considerare l’area anglofona l’unico modello di riferimento. Non Le sembra curioso?
 
“Le Sue parole mi fanno tornare in mente anzitutto l’epigrafe che campeggia sul Palazzo della Civiltà Italiana, che noi romani chiamiamo “Colosseo Quadrato”, e che recita: “Un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”. Si tratta di una citazione tratta da un celebre discorso di Mussolini rivolto alla Società delle Nazioni nell’ottobre del 1935 ed è significativo che, solo a fare queste associazioni di idee, si rischi di passare per nostalgici, anche se ciò dà la misura della perdita di identità culturale a cui sembriamo destinati. In tal senso Le faccio un esempio banale, ma altrettanto significativo: se Lei prova a scrivere al computer “trasmigratori”, il correttore automatico si ostina a proporre in alternativa la parola “migranti””.
 
A quando risale, secondo Lei, questa rivoluzione culturale?
 
“All’immediato dopoguerra ed è il frutto della damnatio memoriae degli ultimi 100 anni della nostra storia. Inoltre, dall’ingresso nella CEE all’adesione alla NATO fino all’entusiastica partecipazione alle dinamiche globalizzanti sponsorizzate dal World Economic Forum, abbiamo fatto di tutto per cancellare la nostra identità e la nostra cultura. In questa prospettiva, l’adozione della lingua inglese nei corsi universitari è solo la ciliegina sulla torta”.
 
A questo proposito una domanda è d’obbligo. In conferenza stampa, a Sanremo, uno dei conduttori ha dichiarato – tra il serio e il faceto – che John Travolta ha fatto ciò che ha fatto perché l’Italia è una colonia degli USA. Lei cosa ne pensa?
 
“Non ho seguito la vicenda perché non ho la televisione e comunque non vedrei Sanremo. Ma che, a partire dall’8 settembre 1943, l’Italia sia una colonia degli Stati Uniti d’America non mi sembra una grande rivelazione: Lei ricorda Gladio? Semmai spiace ricordare che, da Craxi in poi (il riferimento è al caso Sigonella, n.d.r.), nessun politico italiano abbia saputo puntare i piedi per contrastare questo stato di cose”.
 
Torniamo al problema linguistico. Le lingue ufficiali dell’ONU sono sei: arabo, cinese, inglese, francese, russo e spagnolo. Ci si potrebbe chiedere perché gli atenei italiani prediligano la lingua inglese, quando le più parlate al mondo sono il cinese e lo spagnolo.
 
“Ammetto che, sinologi a parte, non sarebbe facile trovare docenti universitari in grado di esprimersi in cinese. Ma d’altra parte non si capisce perché la tanto sbandierata “internazionalizzazione” debba passare solo attraverso la lingua inglese e prescinda da altre dimensioni linguistico-culturali come quella francese, che era la lingua delle relazioni internazionali fino a poco tempo fa, o quella spagnola, altra lingua latina molto più vicina alla nostra identità. E comunque non si capisce perché un docente universitario italiano debba essere obbligato a insegnare in una lingua diversa dalla sua”.
 
Perché ci sono casi in cui docenti italiani sono obbligati a insegnare in inglese?
 
“Gli obblighi possono anche essere indiretti. Se un corso di laurea decidesse di impartire tutti – o quasi – gli insegnamenti in inglese e un docente si rifiutasse, quest’ultimo perderebbe il suo insegnamento, che finirebbe in mano ad altri, e sarebbe comunque costretto a trovarsene un altro per soddisfare il carico didattico che è tenuto a garantire. Ed è appena il caso di aggiungere che questi effetti possono essere non del tutto imprevisti né imprevedibili”.
 
Cosa intende per effetti non imprevisti e non imprevedibili?
 
“Voglio dire che, se un docente non è allineato, insegna con libertà di parola, stimola il pensiero critico degli studenti, adotta testi poco ortodossi, insomma si comporta conformemente all’art. 33 della Costituzione (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, n.d.r.) tanto da diventare un ‘rompiscatole’, un ottimo modo per silenziarlo è spingerlo più o meno gentilmente a insegnare in inglese. Per ovvie ragioni, potrebbe non esprimersi con la stessa proprietà di linguaggio, potrebbe non parlare più a braccio, ma leggere testi, utilizzare slides, insomma fare lezioni barbose come fa buona parte dei docenti universitari, stando almeno a quello che mi raccontano gli studenti. Se l’intento è punitivo, ovviamente importa poco che la qualità complessiva dell’insegnamento ne risulti impoverita: anzi, è un ottimo modo per penalizzare ulteriormente il docente preso di mira”.
 
E gli studenti cosa pensano? Forse non sa che a Bolzano sta per essere attivato un corso di laurea in ‘Medicine and Surgery’ con lezioni esclusivamente in lingua inglese e tasse annue da 18 mila euro.
 
“Bisognerebbe chiederlo agli studenti, che invece mi sembra abbiano poca voce in capitolo. Tornando all’esempio che ho fatto prima, è chiaro che, se l’ipotetico insegnamento dell’ipotetico docente rompiscatole fosse trasformato in un insegnamento impartito in sola lingua inglese, gli studenti italiani, di una università italiana, in Italia, subirebbero una perdita secca e finirebbero per essere discriminati. Si tratterebbe dell’ennesimo esempio di discriminazione alla rovescia indotta dai processi di globalizzazione”.
 
Forse tutto ciò dipende dal fatto che la lingua italiana è poco utilizzata all’estero?
 
“Lei dice? Pensi che già negli anni Trenta, il Touring Club Italiano incluse nella Guida d’Italia i volumi dedicati alla Corsica, al Nizzardo, a Malta, alla Dalmazia, alla Tunisia, all’Argentina, all’Uruguay e al Paraguay, tutti Paesi e territori dove la lingua italiana, per varie ragioni, era estremamente diffusa. A ciò corrispose, come noto, una sorta di “protezionismo” linguistico che portò a limitare in Italia l’uso delle parole straniere, tanto che lo stesso TCI venne rinominato “Consociazione Turistica Italiana”: ma ciò non è forse quanto fanno ancora oggi i Francesi, che giustamente traducono nella loro lingua le espressioni inglesi? Eppure il francese non compare neppure tra le prime dieci lingue parlate al mondo. Evidentemente, tanto per ricollegarsi a quanto accaduto a Sanremo, in Italia c’è una certa predisposizione alla sudditanza, prima di tutto linguistica, rispetto al resto del mondo in generale e rispetto a una certa area geo-politica in particolare”.
 
Non trova che, così facendo, l’italiano finirà per contare poco anche in Italia?
 
“Certamente: ed è proprio quello che penserà lo studente straniero che arriva in Italia e si vede offrire corsi di laurea in inglese, invece che essere spronato a imparare l’italiano. Del resto stiamo parlano di un risultato ampiamente pianificato: chi vuole massificare principi e valori, tradizioni e stili di vita, lingue e culture, mode e costumi, tipicità ed eccellenze e altro ancora sa bene che il modo più efficace, e rapido, passa attraverso l’obliterazione delle identità nazionali. Questo è esattamente il programma delle élites finanziarie transnazionali che governano i processi di globalizzazione e di cui organizzazioni come l’Unione europea e l’ONU sono semplici emanazioni”. 
 
E, da docente universitario, come valuta il fatto che le riviste scientifiche apparentemente più accreditate sono sempre in lingua inglese? Forse che a certi livelli è fondamentale parlare la stessa lingua?
 
“Sul metodo di accreditamento delle riviste scientifiche, e più in generale sulle ragioni che conducono a creare, finanziare e accreditare le riviste, ci sarebbe molto da dire. In ogni caso direi che a certi livelli è fondamentale, perché richiesto, pensare secondo uno schema unico: l’uniformità linguistica viene dopo ed è solo facciata”.

Foto, Luca Marini