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ESCLUSIVO. Terapie domiciliari, studio italiano in pre-print: “Un solo decesso su 392 pazienti”

9 Aprile 2022

ESCLUSIVO. Terapie domiciliari, studio italiano in pre-print: “Un solo decesso su 392 pazienti”

Il Covid-19 è curabile nella quasi totalità dei casi e, generalmente, a casa. L’ennesima conferma giunge da uno studio retrospettivo italiano, pubblicato in pre-print lo scorso 5 aprile: Early Outpatient treatment of Covid-19: a retrospective analysis of 392 cases in Italy (la ricerca è disponibile in lingua inglese al seguente link: https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2022.04.04.22273356v1). Condotto dal professor Marco Cosentino (medico e dottore di ricerca in Farmacologia e Tossicologia, professore ordinario di Farmacologia presso la Scuola di Medicina dell’Università dell’Insubria, dove dirige il Centro di ricerche in Farmacologia Medica), il lavoro ha coinvolto ricercatori e professori dell’Università degli Studi dell’Insubria (Stefano Martini e Franca Marino), nonché gli specialisti di IppocrateOrg, l’associazione (fondata e presieduta da Mauro Rango) composta da medici volontari che, dalla primavera 2020, trattano il Covid con successo e a domicilio. Tra questi: Barbara Allasino, Maria Balzola, Fabio Burigana, Alberto Dallari, Carlo Servo Florio Pagano e Antonio Palma. Coordinatori del Comitato Medico Scientifico di IppocrateOrg i dottori Fabio Burigana e Rosanna Chifari Negri. L’efficacia delle terapie precoci è provata dal fatto che, su 392 pazienti curati durante la “seconda ondata”, si è registrato un solo decesso. Basso il numero delle ospedalizzazioni, che ha riguardato prevalentemente i pazienti presi in carico nella fase più avanzata della malattia. Abbiamo chiesto al professor Cosentino di illustrarci i risultati dello studio.

Il “protocollo Speranza”, basato sul paracetamolo e la vigile attesa, è stato smontato definitivamente. Professore, si può affermare che, contro il Covid-19, non esiste la “cura”, ma esistono le “cure”?

“Il COVID-19 è una malattia complessa e il cui decorso – in base alle attuali conoscenze – non è facilmente prevedibile. A fronte di una stragrande maggioranza di casi in cui i sintomi sono lievi o nulli e la guarigione arriva dopo pochi giorni, in alcune situazioni il decorso è aggressivo, spesso ma non sempre in relazione alla presenza di alcuni fattori di rischio quali età avanzata, sovrappeso, presenza di patologie croniche importanti. Va poi tenuto conto che si tratta di una malattia dovuta a un virus ma le cui manifestazioni più pericolose sono connesse all’esagerata e disregolata reazione immunologica al virus stesso, che provoca conseguenze di natura primariamente tromboembolica e infiammatoria, soprattutto a livello polmonare dove possono instaurarsi anche infezioni batteriche secondarie. Ne consegue che le opzioni farmacoterapeutiche spaziano da agenti con attività antivirale e immunostimolante a farmaci antiinfiammatori, anticoagulanti e antibiotici. Questa è indubbiamente una delle principali ragioni per cui le sperimentazioni di singoli farmaci fino a oggi non hanno mai dato risultati straordinari, anche dove un beneficio c’è stato. Curare il COVID-19 implica un approccio da parte del medico altamente personalizzato e un monitoraggio attento e continuo del malato, fin dai primi sintomi e senza attendere la conferma del tampone. Questo sul piano individuale, tenendo presente che sarebbe indispensabile una rete di cura che integrasse in maniera coordinata territorio e ospedale”.

Il vostro lavoro è in pre-print: cosa significa? Con quali modalità è stato condotto il vostro studio?

“La ricerca è stata realizzata invitando i medici che hanno curato le persone con COVID-19 nel periodo da novembre 2020 a marzo 2021 compresi (dunque, durante la “seconda ondata”) a fornire alcune informazioni sul quadro clinico, le terapie attuate e gli esiti dei pazienti che hanno assistito. I dati sono stati forniti in forma anonima e sono stati elaborati in modo da consentire di descrivere le caratteristiche dei pazienti, le terapie farmacologiche attuate nelle diverse fasi della malattia e i risultati ottenuti in termini di guarigione, a domicilio o in ospedale, o meno. Il manoscritto che descrive il nostro studio è stato messo immediatamente a disposizione di tutti gli interessati su medrXiv, la principale piattaforma ad accesso libero dedicata agli studi clinici, e al tempo stesso, è stato proposto a una rivista internazionale per la pubblicazione, previa revisione tra pari. Quest’ultimo passaggio richiede usualmente un tempo variabile da qualche settimana a qualche mese, nel frattempo tuttavia il nostro lavoro può essere esaminato da chiunque e anche pubblicamente commentato. Il termine “pre-print” indica manoscritti non ancora pubblicati in rivista, e quindi per definizione non ancora sottoposti a formale valutazione tra pari. La commentabilità pubblica garantita dalla piattaforma è peraltro a tutti gli effetti una forma di revisione aperta e trasparente che spesso consente di raccogliere osservazioni e critiche utili”.

Lo studio dimostra che, oltre alla somministrazione di terapie adeguate e personalizzate, a fare la differenza è la tempestività. È previsto un trattamento farmacologico per ogni fase della malattia?

“Convenzionalmente le fasi del COVID-19 da un punto di vista clinico sono diverse: la fase 0, caratterizzata da positività asintomatica, la fase 1, con sintomi ma senza interessamento polmonare, la fase 2, che invece include interessamento polmonare, a sua volta suddivisa in 2a, senza riduzione dei livelli di ossigeno nel sangue, e 2b, con riduzione. In linea di massima, nella fase 0 sono raccomandabili soprattutto vitamine e integratori, sebbene qualcuno sostenga anche l’opportunità di impiegare fin dal principio i farmaci antiinfiammatori non steroidei come l’aspirina e alcuni suoi analoghi. La fase 1 richiede l’aggiunta di antiinfiammatori e immunomodulanti con attività antivirale, e a seconda del profilo del paziente e dell’andamento della malattia alcuni trovano utile già a questo stadio considerare gli antibiotici, mentre alcuni buoni studi sono anche a favore dei glucocorticoidi, specie per via inalatoria. Nella fase 2 infine è necessario dispiegare tutto l’armamentario disponibile adeguandolo alle caratteristiche e alle esigenze del paziente. Nel nostro studio, il numero medio di giorni dall’inizio dei sintomi alla presa in carico era di 4,4 giorni, ma c’erano persone che si sono rivolte al medico anche dopo addirittura 20 giorni di malattia. La differenza in termini di tempo nei casi che abbiamo analizzato era legata soprattutto alla fase di malattia in cui avveniva la presa in carico: 3,3-4 giorni in media per chi è arrivato in fase 0/1 rispetto a 5-5,5 giorni per chi è arrivato in fase 2a/2b. Questo aspetto a sua volta non è parso condizionare più di tanto la guarigione finale (ad esempio, i pazienti presi in carico in fase 2b sono guariti così come tutti gli altri) quanto piuttosto la frequenza con cui la guarigione è stata preceduta dalla necessità di ricovero ospedaliero: 1,6-4,6% in chi ha iniziato a essere curato in fase 0/1 rispetto a 8-27,3% in chi ha iniziato in fase 2a/2b. L’unico decesso registrato peraltro ha riguardato un maschio 77enne sovrappeso e con cronicità cardiovascolare, preso in carico nei primi giorni di malattia quando già in fase 2a, deceduto infine dopo ospedalizzazione, a rimarcare l’estrema eterogeneità del decorso. Si tenga presente che tra le persone prese in carico nella fase 2b, quella più grave, oltre il 45% era ultra75enne, più del 53% era sovrappeso o francamente obeso, e il 41% aveva 2 o anche 3 patologie croniche diverse, e malgrado questo tutti hanno raggiunto la guarigione”.

Numerosi pazienti erano affetti da comorbidità: quali patologie pregresse possono influire negativamente sulla prognosi di un malato Covid?

“In questo studio le informazioni sulle comorbidità croniche sono state raccolte solo per categorie generali (cardiovascolari, respiratorie, metaboliche, autoimmuni, oncologiche, ecc.). Nell’immediato futuro intendiamo studiare su numeri più ampi e in maggiore dettaglio il ruolo eventuale delle patologie croniche e dei farmaci che vengono impiegati per curarle”.

Uno dei FANS da voi maggiormente utilizzato è l’acido acetilsalicilico (più noto con il nome commerciale di aspirina). Facciamo chiarezza: qual è la differenza tra l’acido acetilsalicilico e il paracetamolo (tachipirina)? Perché quest’ultimo, pur essendo raccomandato dalle linee guida ministeriali, non sarebbe indicato contro il Covid-19?

“L’acido acetilsalicilico, noto ai più come aspirina, ha – oltre agli effetti antipiretici, ovvero di riduzione della febbre – attività antiinfiammatoria e antiaggregante piastrinica, fondamentali per la prevenzione di alcune delle più gravi complicanze del COVID-19 legate all’infiammazione e al rischio di tromboembolie. In accordo con questo profilo farmacologico, vari studi ne documentano i benefici nel COVID-19. Il paracetamolo al contrario, pur condividendo il medesimo meccanismo d’azione a livello molecolare, è unicamente antipiretico e non ha invece alcuna proprietà antiinfiammatoria e tanto meno antiaggregante piastrinica, risultando di conseguenza quanto meno inutile contro le complicanze del COVID-19. Non a caso nessuno studio ne ha mai documentato alcun beneficio in questa malattia. Qualcuno sostiene inoltre che il paracetamolo possa addirittura risultare deleterio, dal momento che l’organismo per eliminarlo consuma riserve di glutatione, un importante antiossidante. Questo meccanismo è alla base dell’effetto avverso più comune del paracetamolo. Che si manifesta per dosaggi poco superiori a quelli raccomandati, ovvero un danno epatico che può essere anche estremamente grave e talora fatale”.

Tra i farmaci somministrati, in modalità off-label, anche quelli “incriminati” nel trascorso biennio, quali idrossiclorochina, colchicina e ivermectina che, ai fini della cura contro la Covid, parte della comunità scientifica considera inutili se non addirittura pericolosi. L’ivermectina, poi, è stato definito il “farmaco per i cavalli”. Perché si sarebbero rivelati efficaci, in realtà?

“Sulla base dei dati raccolti, non è possibile concludere nulla sulla specifica efficacia di determinati farmaci. In particolare, nei quasi 400 casi di COVID-19 da noi esaminati, l’idrossiclorochina è stata prescritta a circa 3 pazienti su 10 mentre l’ivermectina a meno di 3 su 100. La ragione principale è legata all’arco temporale coperto da questo primo studio, che va da novembre 2020 a marzo 2021, quando ancora la nozione che l’ivermectina fosse un’opzione per il COVID-19 non era così diffusa. Si tenga inoltre presente che, mentre l’idrossiclorochina è in commercio in Italia per il trattamento dell’artrite reumatoide, l’ivermectina può essere reperita solo come farmaco galenico, ovvero preparato “artigianalmente” in farmacia su richiesta del medico. Rispetto alle evidenze di efficacia, poi, il sito web https://c19early.com/, che raccoglie a oggi i dati di oltre 1.600 studi farmacoterapeutici nel COVID-19, elenca 81 studi con ivermectina su un totale di quasi 130.000 persone che complessivamente documentano un beneficio del 65% e ben 336 studi con idrossiclorochina su oltre 450.000 persone che documentano un beneficio in media del 25%. In entrambi i casi si tratta quindi di farmaci che soddisfano pienamente i requisiti previsti dalla legge italiana per la prescrizione al di fuori delle indicazioni terapeutiche registrate nel nostro paese, ove nello specifico paziente il medico curante ritenga di non avere alternative di pari o maggiore efficacia. Infine, riguardo alla questione del “farmaco per cavalli”, chi definisce in tal modo l’ivermectina immagino si riferisca al paracetamolo come “farmaco per maiali”, visto il suo vasto e consolidato impiego in veterinaria come antipiretico per suini. D’altronde, il nostro paese ha appena varato una nuova normativa che consente ai veterinari di impiegare negli animali qualsiasi farmaco registrato per uso umano, anche se non specificamente autorizzato in specie non umane. E dunque?”

Secondo un recente studio coordinato dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora e pubblicato sul New England Journal of Medicine, il plasma iperimmune dimezzerebbe il rischio di ricovero se somministrato entro 5 giorni dalla comparsa dei sintomi. Qual è stata la vostra esperienza con questo trattamento?

“Tra i casi di COVID-19 inclusi in questo studio nessuno è stato trattato con plasma convalescente. In ogni caso, i benefici di questo trattamento sono ampiamente documentati. Se mai è difficilmente comprensibile la ragione per cui ancora oggi non sia possibile contare sul plasma come opzione di facile accesso. I motivi difficilmente sono di natura medica o scientifica”.

Non c’è giorno in cui i media non comunichino l’arrivo di una nuova variante. Con quale frequenza muta il virus? La quarta dose di vaccino è già realtà ma, quasi sicuramente, non sarà né l’ultima, né quella risolutiva. Invece le terapie domiciliari a basso costo funzioneranno comunque?

“Mutare è nella natura di questo virus e in generale della famiglia di microrganismi cui appartiene. La strategia vaccinale come unica opzione è perdente anche per questo, oltre che per l’incapacità di prevenire il contagio e la trasmissione, per gli intrinseci limiti di durata dell’immunizzazione e per le incognite legate agli effetti indesiderati tanto più con richiami ripetuti a breve distanza di tempo uno dall’altro. Riguardo ai farmaci utilizzabili nel COVID-19 dobbiamo fare prima di tutto una distinzione tra gli antivirali propriamente detti, sui quali punta molto l’industria, e gli antiinfiammatori, gli anticoagulanti, gli antibiotici e in generale quei farmaci che agiscono anche o principalmente sulle manifestazioni della malattia. Mentre il virus mutando potrebbe finire per sfuggire agli antivirali, un antiinfiammatorio o un anticoagulante saranno sempre in linea di principio attivi, fatta salva la possibilità che le mutazioni casuali portino a selezionare varianti più aggressive e letali. Di regola accade il contrario, ovvero un microrganismo patogeno evolve verso una condizione di “convivenza” con l’ospite. La stessa cosa dovrebbe avvenire con questo virus, a condizione che i suoi comportamenti siano quelli di un microrganismo naturale”.