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ESCLUSIVO. Il potere dell’industria farmaceutica: il lavoro del professor Jureidini per il British Medical Journal

4 Aprile 2022

ESCLUSIVO. Il potere dell’industria farmaceutica: il lavoro del professor Jureidini per il British Medical Journal

La tematica dei finanziamenti, il legame (troppo stretto e a filo doppio) tra medici e case farmaceutiche, i rapporti tra l’industria e il mondo accademico. Il 16 marzo scorso i professori Jon Jureidini e Leemon B. McHenry hanno pubblicato sul British Medical Journal un lavoro estremamente interessante, che pone riflessioni e interrogativi sulle modalità con cui viene condotta la ricerca scientifica: The Illusion of Evidence Based Medicine (il collegamento ufficiale: https://www.bmj.com/content/376/bmj.o702). Nel 2020 i due docenti avevano esposto le loro considerazioni anche nel libro The Illusion of Evidence-Based Medicine: Exposing the Crisis of Credibility in Clinical Research, edito da Wakefield Press (il link: https://www.wakefieldpress.com.au/product.php?productid=1613). Jureidini è professore di psichiatria e pediatria presso l’Università di Adelaide (Australia). Lavora al Women’s and Children’s Hospital e dirige il Critical and Ethical Mental Health (CEMH) Research Group all’interno del Robinson Research Institute. McHenry è invece un rinomato esperto di bioetica, nonché professore emerito di filosofia alla California State University di Northridge (Los Angeles). Abbiamo affrontato le problematiche connesse al modus operandi dell’industria farmaceutica insieme al professor Jureidini.

Gli interessi finanziari prevalgono sul bene comune. Si legge nella pubblicazione: “Le autorità di regolamentazione ricevono finanziamenti dall’industria e utilizzano sperimentazioni finanziate dall’industria per approvare i farmaci, senza vedere, nella maggior parte dei casi, i dati grezzi”. Professor Jureidini: chi ha accesso ai dati e chi verifica la loro integrità?

“Per gli enti regolatori è possibile ottenere l’accesso ai dati grezzi. Tuttavia spesso non lo fanno. Probabilmente il professor Leemon B. McHenry potrebbe argomentare meglio di me la questione. Comunque, le autorità di regolamentazione avrebbero la capacità e ci sono state diverse occasioni in cui gli informatori, all’interno ad esempio della FDA (Food and Drug Administration, ndr), negli Stati Uniti, attraverso l’accesso ai dati grezzi hanno manifestato preoccupazioni sulle modalità con cui questi ultimi sono stati distorti e persino pubblicati in modo errato. Ma la realtà è che a volte desistono, scegliendo di non cogliere l’opportunità di accedere a quei dati, ma di accettare il copia e incolla di quanto viene inviato loro dalle case farmaceutiche”.

Chi finanzia gli studi clinici? Gli enti regolatori sono nelle condizioni di eseguire controlli di qualità sui preparati farmaceutici forniti dai produttori?

“Si tratta di due tematiche separate. Le sperimentazioni cliniche vengono finanziate prevalentemente dall’industria farmaceutica. È importante operare una distinzione tra i trials clinici. Ci sono quelli finalizzati alla ricerca di nuovi farmaci e quindi i test di fase tre per ottenere le licenze. Infine ci sono i familiarity trials”.

Di cosa si tratta?

“Facciamo un esempio. In qualità di psichiatra potrei rivolgermi a un’azienda dicendole che sono interessato alla sua sertralina (farmaco impiegato nel trattamento della depressione, degli attacchi di panico e di altri disturbi, ndr). L’azienda potrebbe quindi fornirmi il farmaco ma, in alternativa, potrebbe anche chiedere a un opinion leader (con cui ha già un legame) di sostenermi per testare il farmaco in merito a una patologia mai trattata in precedenza con esso. Si tratta di farmaci già registrati e brevettati, ma che verrebbero somministrati al di fuori delle condizioni autorizzate dagli enti preposti (per un impiego off-label, ndr). In questo caso l’obiettivo non è principalmente quello di acquisire ulteriori conoscenze sul farmaco, ma di aumentarne il suo profilo…”.

Può farci un esempio concreto?

“Se, ad esempio, il nostro dipartimento sta svolgendo una sperimentazione sulla venlafaxina (altro farmaco utilizzato in psichiatria, ndr) allora è più probabile che la venlafaxina diventerà il nostro farmaco preferito nel nostro prestigioso dipartimento accademico. E se ciò avverrà, altri medici nella nostra comunità scientifica saranno influenzati dal nostro modo di agire. Quindi i familiarity trials vengono finanziati dal dipartimento marketing delle aziende, non dal dipartimento di ricerca. La ricerca primaria subisce spesso una forte influenza da parte del marketing. Ne consegue che il marketing avrà una grande voce in capitolo qualora in futuro venisse sviluppata un’altra, diversa sostanza chimica. Il controllo della qualità riguarda la preparazione effettiva dei farmaci: non credo ci siano problemi da questo punto di vista. Per quanto ne sappia, le agenzie di regolamentazione fanno un buon lavoro per assicurarsi che ciò che è descritto nell’etichetta corrisponda al contenuto del farmaco. Tuttavia questo esula dalle mie competenze”.

“I dipartimenti universitari diventano strumenti dell’industria”: perché? Esistono ancora enti/centri di ricerca realmente indipendenti?

“Ci sono ancora centri di ricerca indipendenti, ma la perdita di finanziamenti governativi nella maggior parte delle giurisdizioni o la riduzione dei finanziamenti governativi per le università, nella maggior parte dei Paesi, ha indotto tali centri a cercare finanziamenti altrove. Gli studenti, attraverso le loro rette, danno un contributo importante alle università, ma l’altra, grande tematica riguarda le partnership industriali. Quasi tutte le università investono nella promozione delle partnership industriali. In medicina le partnership industriali vengono instaurate principalmente con aziende farmaceutiche e con i produttori di dispositivi. Le partnership si sviluppano in modo molto diseguale: persino un dipartimento universitario importante e prestigioso, che riceve tanti altri finanziamenti, è minuscolo rispetto a un’azienda farmaceutica. Da qui nascono le partnership tra industria farmaceutica e mondo accademico”.

Rapporti di potere, dunque. È una questione tra “ricchi” e “poveri”…

“Una parte è ricca e potente; l’altra (mi riferisco al mondo accademico) è povera, vanitosa e molto consapevole di quanto sia importante mantenere la propria immagine. E così, con l’enorme quantità di fondi a sua disposizione, l’industria farmaceutica può assecondare la vanità dei singoli accademici e dei loro dipartimenti. La relazione tra le due realtà è reciprocamente soddisfacente. Ma gli accademici vengono inconsapevolmente sfruttati. Non è una questione di tangenti o che gli accademici traggano vantaggi finanziari personali: si tratta invece di complimenti, fama, status e della necessità degli accademici di mantenere i loro incarichi. È difficile ottenere sovvenzioni governative per la ricerca, in quanto c’è molta competizione. Quindi, se crei una partnership con l’industria puoi ottenere molti più soldi, in tempi molto più rapidi e allo stesso tempo ottenere più pubblicazioni. Le aziende ti aiutano a scrivere o addirittura scrivono le pubblicazioni per te. La tua carriera può fare un vero passo avanti”.

Se, in un mondo ideale, le università e i vari centri ricevessero finanziamenti equi e necessari per la ricerca, non sorgerebbero problemi di questa natura. Ma siamo davvero sicuri che i governi non siano legati a Big Pharma?

“Non necessariamente. Mi spiego: esiste una quantità enorme di interessi farmaceutici, ci sono numerosi lobbisti dell’industria farmaceutica che, negli Stati Uniti, hanno un impatto sulla politica del governo. Tuttavia, il vero problema è la distribuzione dei fondi per la ricerca: andrebbe regolamentata. Non importa tanto da dove provengano i soldi. Idealmente, dovrebbero provenire dalle tasse e dal governo, in quanto la ricerca dovrebbe appartenere alle persone. Ma, anche se i soldi provenissero dall’industria, a condizione che passassero attraverso un organismo indipendente che distribuisca i finanziamenti in base al merito, sarebbe molto utile per ripulire il sistema. Al momento, però, non è così”.

L’industria farmaceutica si serve anche dei media per sponsorizzare i propri prodotti: quali sono le responsabilità della stampa? L’informazione è davvero libera?

“La preoccupazione nasce dal fatto che i media fondamentalmente si limitano a tagliare e a incollare i comunicati stampa piuttosto che a ricercare le informazioni autonomamente. Ciò significa che, se l’industria è molto abile a produrre comunicati stampa entusiasmanti e se tu continui a leggere di incredibili scoperte mediche nei media, sai già che generalmente si tratta di notizie di poco conto. Ritengo che i giornalisti abbiano la stessa responsabilità che dovrebbero avere rispetto a qualsiasi altro ambito e verso cui dovrebbero essere critici, scettici”.

Conflitti di interesse tra i medici e l’industria farmaceutica: quali soluzioni?

“Non ci dovrebbe essere alcun rapporto tra i medici e l’industria farmaceutica, a meno che i medici non siano dipendenti delle aziende farmaceutiche. Nella maggior parte dei casi, invece, i medici che hanno un impiego primario in università, ospedali o comunità, in un certo senso lavorano per l’industria farmaceutica, dalla quale vengono lautamente ricompensati, anche per un impegno minimale. L’intenzione dell’azienda consiste nello sfruttare la reputazione e le competenze dei medici per commercializzare i propri farmaci. Non va bene. Ritengo corretto quando un’azienda farmaceutica fa pubblicità a uno scienziato con l’obiettivo di farlo entrare nel suo team, garantendogli uno stipendio: in questo caso si tratterebbe di un rapporto di lavoro avente le stesse, tipiche responsabilità (anche etiche) che intercorrono tra datore di lavoro e dipendente. Non è concepibile, invece, per un medico come me che lavora in un’università, avere alcun tipo di rapporto con l’industria farmaceutica, che passi o meno attraverso l’università: la gente comune sarebbe indotta a credere che, avendo il medico legami con l’università, ciò costituisca in qualche modo una garanzia. Tuttavia, per le ragioni che ho già delineato, non è così”.

I trials devono avvenire solo sotto controllo pubblico?

“Sarebbe una buona cosa. Potrebbe essere sollevata un’obiezione sui costi della ricerca. Non intendo dire che, attualmente, i contribuenti o la popolazione stiano finanziando la ricerca sui farmaci. La stanno finanziando attraverso i prezzi gonfiati dei prodotti farmaceutici. L’industria farmaceutica dovrebbe addebitare meno costi per i farmaci; i governi pagherebbero meno sussidi per essi e il denaro potrebbe essere utilizzato per la ricerca. Quindi il quantitativo di denaro sarebbe lo stesso, ma resterebbe sotto il controllo del governo”.

La maggior parte delle informazioni sui vaccini anti-Covid è ancora secretata. Tuttavia l’industria farmaceutica continua a proporre dosi di richiamo e nuovi vaccini. Qual è il Suo parere, al riguardo?

“Per quanto riguarda l’autorizzazione di farmaci e vaccini un ente regolatorio adeguatamente costituito dovrebbe proteggerci da qualsiasi decisione sbagliata assunta in merito all’idoneità dei prodotti. Noi sosteniamo che tutti i dati degli studi debbano essere resi pubblici e accessibili ai ricercatori altamente qualificati e che tutti i team di ricerca dovrebbero avere l’opportunità di verificare l’efficacia e la sicurezza di un farmaco. Per questioni di tempo, durante una pandemia come quella causata dal Covid non c’era la possibilità. La riservatezza ha a che fare con lo sviluppo e gli investimenti dei farmaci. È importante adottare un criterio sulle informazioni da classificare. Uno degli argomenti utilizzati per classificare le informazioni è la privacy dei partecipanti alla sperimentazione. Questa motivazione è molto debole, perché i partecipanti al trial corrono un rischio e compiono un sacrificio al fine di ottenere risultati utili alla collettività. E quindi i loro interessi devono essere rappresentati ed è nel loro stesso interesse che i dati sperimentali vadano resi pubblici, affinché possano essere utilizzati nel miglior modo possibile. Il fatto che le case farmaceutiche suggeriscano di proteggere la privacy dei pazienti è quindi una motivazione debole. L’altra motivazione riguarda la riservatezza commerciale, ma si tratta di una tematica anti-scientifica. Mi spiego meglio: quando la scienza prevede la pronta condivisione di tutti i risultati, al fine di dare l’opportunità agli altri team di confutarli, si offre alla scienza stessa la possibilità di progredire. Non sono esperto di Covid, posso invece mettere in relazione il mio ragionamento con gli altri vaccini”.

Dica pure…

“Pfizer possiede il brevetto del vaccino pneumococcico. La malattia da pneumococco è un killer di bambini. Pfizer guadagna miliardi di dollari grazie al suo vaccino. In India e in altri Paesi simili, centinaia di migliaia di bambini muoiono ogni anno a causa di malattie da pneumococco. Quindi, da un lato, hai un vaccino che avrebbe potuto prevenire quelle morti e che allo stesso tempo sta fruttando profitti di miliardi di dollari. Dall’altro, però, questi bambini non ricevono quel vaccino. C’è qualcosa di molto sbagliato a livello dell’azienda farmaceutica o del governo indiano o di qualche altro organismo che dovrebbe interessarsi alla vita e al benessere di quei bambini”.

Qual è la causa di questo problema?

“Non so quale sia la causa, ma se la Pfizer potesse rinunciare a una frazione dei suoi profitti, per vaccinare quei bambini indiani, si potrebbero salvare centinaia di migliaia di vite. Posso aggiungere un’ultima cosa?”

Prego…

“La gente potrebbe pensare che la nostra pubblicazione alimenti i movimenti “no-vax”, in realtà non è così. Chi sta fornendo supporto alle persone che si oppongono in modo distruttivo alle buone cure mediche sono paradossalmente le aziende farmaceutiche e le autorità di regolamentazione che minano l’integrità della ricerca e privano il pubblico della fiducia necessaria. E, infatti, la riluttanza a vaccinarsi è in parte correlata alla perdita di fiducia che la comunità ha finito per nutrire in generale nei confronti del sistema sanitario e accademico”.