ESCLUSIVO. L’ingegnere Alberto Giovanni Gerli: “Ecco perché ho rinunciato al Comitato Tecnico Scientifico”

“Non si era mai visto un accanimento di simili proporzioni contro un tecnico. Numerose mie affermazioni sui modelli predittivi sono state contraffatte: l’impressione è che qualcuno volesse impedirmi di lavorare”. L’ingegnere Alberto Giovanni Gerli motiva così la sua rinuncia alla nomina come componente del Comitato Tecnico Scientifico. Quarantenne, ingegnere gestionale, startupper di successo ed ex consigliere delegato gruppo giovani di Confindustria Padova, Gerli aveva accolto inizialmente con entusiasmo la proposta di entrare nel rinnovato Cts.
Ingegnere, perché ha rinunciato all’incarico dopo appena quarantotto ore dalla nomina?
“Innanzitutto premetto che non ero a conoscenza di essere tra i papabili all’incarico. Evidentemente il Consiglio dei Ministri aveva manifestato interesse nei miei confronti, dopo avere consultato alcuni scienziati con cui ho lavorato nell’ultimo anno di pandemia. Io mi occupo di analisi dei dati da vent’anni e ho collaborato attivamente con accademici del calibro di Giuseppe Remuzzi e Carlo La Vecchia. Non ho certo la presunzione di ritenermi l’unico esperto in materia, tuttavia è un fatto che una parte della comunità scientifica mi avesse proposto per quell’incarico. Nel giro di poche ore dalla nomina sono passato dalla gioia e dalla commozione all’umiliazione. In breve il mio nome era il più cliccato e il più denigrato del web!”.
Cos’è successo, esattamente?
“Qualcuno ha estrapolato le mie considerazioni degli ultimi mesi, relative alle misure di contenimento. Di solito una pressione mediatica così forte viene esercitata nei confronti dei politici, non dei tecnici”.
Le hanno contestato di avere sbagliato i modelli predittivi. Come risponde alle critiche?
“A gennaio avevo ipotizzato determinati scenari per la Lombardia e il Veneto, scenari che poi non si sono avverati. Attenzione, però: avevo specificato chiaramente che i miei modelli si basavano sull’andamento di condizioni costanti. In presenza delle varianti, infatti, poteva cambiare tutto. Ed è proprio la situazione che avevo previsto per Brescia, l’8 febbraio scorso. I miei detrattori, inoltre, hanno fatto circolare la voce che io fossi stato nominato in quanto vicino alla Lega, cosa assolutamente falsa”.
I lockdown sono efficaci? Contribuiscono a ridurre contagi e ospedalizzazioni?
“Preferisco l’espressione “misure di chiusura” a quella di “lockdown”. I miei studi dimostrano che le misure sono efficaci quanto più tempestivamente sono attuate. Chiudere in prossimità del picco ha molto meno senso. Sono favorevole alla gestione differenziata della pandemia, ovvero per aree geografiche, purché vengano analizzati anche i flussi delle singole zone. Applicare in alcune Regioni le misure da zona rossa è eccessivo. Se fotografassimo l’Italia, ci accorgeremmo che sta avvenendo una decrescita dei contagi in gran parte della penisola; alcune Regioni sono vicine al picco, altre si apprestano a raggiungerlo. Ci sono infine Regioni con situazioni miste. Ora il tema più urgente può essere vaccinare i più fragili”.
I dati forniti quotidianamente dalle autorità sono esaustivi? Le persone paiono sempre più disorientate…
“Ormai assistiamo a un vero e proprio data cooking, cioè a una “cottura” dei dati. I numeri possono essere interpretati in maniera diversa, poiché i parametri sono tantissimi: diciamo che ogni fase ha i suoi. Le autorità prendono in considerazione due aspetti. Il primo è il numero dei tamponi positivi e quello dei casi positivi: tuttavia questi dati possono rivelarsi fuorvianti, in quanto possono verificarsi situazioni di multipositività. Il secondo aspetto è l’indice di contagio, Rt, che rivela quando i malati hanno manifestato i sintomi. Personalmente utilizzo il parametro RDt, che considera solo i casi positivi e che prevede l’Rt con circa dieci giorni di anticipo”.
Uno studio recentissimo dell’Università di Canterbury rivela che solo lo 0,1% dei contagi avviene all’aperto. Sorpreso?
“Premetto che devo ancora leggere attentamente tale studio. Comunque la risposta è “no”. È logico che sia più facile contrarre il virus al chiuso, anziché all’aperto. Abbiamo notato che l’Arabia Saudita aveva raggiunto il picco nel mese di agosto: a causa del caldo torrido, infatti, le persone tendevano a ripararsi in casa. Io mi occupo di dati da una vita e la politica dovrebbe rielaborare i modelli epidemiologici, la parte clinica e quella virologica, dovrebbe cioè studiare la provenienza dei contagi. Ripeto: le misure di chiusura hanno senso solo se adottate con tempestività. Mi rendo conto, comunque, che è difficile far accettare alle persone di chiudersi in casa quando i contagi sono pochi”.
Lei è anche un imprenditore di successo. Quali sono le Sue considerazioni sulla crisi economica che sta travolgendo la società?
“Ritengo che la crisi colpirà prevalentemente i piccoli imprenditori, cinquantenni. Numerosi settori sono stati letteralmente distrutti: il turismo, la ristorazione, lo sport e il mondo dello spettacolo ne usciranno disfatti. Noteremo gli effetti peggiori non appena verrà tolto il blocco dei licenziamenti. Verranno immessi sul mercato parecchi capitali per risanare l’economia, tuttavia essi non interesseranno i piccoli imprenditori. Sinceramente sono parecchio pessimista”.
Francesco Servadio

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