I video in cui racconta la sua esperienza di medico in prima linea, nella lotta contro il coronavirus, hanno fatto il giro del web. Cardiologo, direttore sanitario del Ticinello Cardiovascular & Metabolic di Pavia e responsabile degli ambulatori della clinica Santa Rita di Vercelli, il dott. Fabrizio Salvucci è stato tra i primi medici al mondo a individuare le reali cause dei decessi per Covid. Inoltre ha sperimentato il virus su di sé e sui propri familiari. “Durante la prima ondata avevo deciso di dare il mio contributo in ospedale. Io e una mia collega effettuavamo ecocardiogrammi a tutti i pazienti Covid in entrata al pronto soccorso, a quelli ricoverati nel reparto appositamente attrezzato e ai degenti della terapia intensiva”. Il cardiologo, assistendo anche malati in punto di morte, è giunto a conclusioni sbalorditive: “All’atto del decesso non si verificava alcuna aritmia. I veri problemi erano rappresentati dai trombi, che alteravano la funzionalità del cuore destro. In sede autoptica si è poi appurato che circa il 20% dei deceduti soffrisse di miocardite, tuttavia la causa effettiva di morte era l’ingrossamento del cuore destro: si ingrandiva e si arrestava lentamente, in una asistolia mai vista prima di allora”, rivela il medico. Che aggiunge: “Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile abbiamo inoltre scoperto che l’età dei ricoverati in terapia intensiva non superava i sessant’anni e che i casi gravi erano rappresentati da malati colpiti, nella loro permanenza a casa, da febbre alta per una o due settimane, a volte addirittura per un mese. L’osservazione di questi casi ci ha permesso di intuire che l’unica soluzione doveva essere il trattamento precoce dell’infiammazione”. Il dott. Salvucci rivela particolari inquietanti: “Alcuni soggetti avevano già sviluppato una polmonite bilaterale nonostante manifestassero una sintomatologia lieve, come disgeusia e anosmia (alterazioni del gusto e dell’olfatto, ndr)”. Uno studio del dott. Carmine Gazzaruso (di Vigevano), pubblicato sulla rivista “Nutrition, Metabolism and Cardiovascular Diseases”, ha evidenziato che i suoi pazienti, affetti da artrite reumatoide, non si ammalavano quasi mai: “Pochissimi di loro sono stati ricoverati, ma nessuno in rianimazione, proprio perché erano già opportunamente trattati con le cure a base di antiinfiammatori”, precisa il cardiologo. Altro aspetto importante, a sostegno dello studio del dott. Gazzaruso: “Ho visto morire quarantenni e cinquantenni, tutti obesi”, afferma il medico Salvucci. “L’obesità è un’infiammazione e su questi soggetti l’eparina è purtroppo inefficace. Unica soluzione, per loro: infusioni di plasma ricco di antitrombina”. Il processo della malattia da Covid-19 si può quindi descrivere in tre fasi: “Durante la prima compaiono i sintomi, molto variabili, ma che vanno stroncati sul nascere con gli antiinfiammatori. La vigile attesa, sostenuta anche da certi protocolli, rappresenta invece un gravissimo errore: è sbagliato attendere, bisogna agire immediatamente. Se il paziente non viene trattato prontamente, entra nella seconda fase, quella dello sviluppo dell’autoimmunità. Il peggioramento improvviso delle condizioni cliniche è infatti correlato alla presenza di autoanticorpi, causa di vasculiti e, in alcuni bambini, della sindrome di Kawasaki. Nell’ultima fase si verificano i trombi, che portano infine al decesso. Fortunatamente abbiamo a disposizione dei farmaci, che però vanno somministrati rispettando tempi e modalità, affinché siano efficaci”. Tra questi il dott. Salvucci cita la nimesulide (associata a un gastroprotettore) e il “Plaquenil” (nome commerciale dell’idrossiclorochina), che ha suscitato reazioni contrapposte e ostili fra gli stessi medici. “La maggior parte degli studi che comprova l’inefficacia dell’idrossiclorochina nel trattamento del Covid è di natura ospedaliera. Questi lavori non si basano sull’esperienza maturata sul campo dai singoli medici. Aifa, Oms e Ministero stilano i protocolli seguendo la letteratura scientifica: tuttavia i grandi trials si fanno nei periodi di “bassa marea”, non durante gli “tsunami”. Inoltre quegli studi ospedalieri consideravano una posologia completamente errata: l’idrossiclorochina deve essere somministrata all’insorgere dei primi sintomi, possibilmente nelle prime ventiquattro ore, con una dose di attacco non superiore ai 400 mg, per poi scendere a 200 e per un periodo di sette o dieci giorni al massimo. Gli studi pubblicati si sono basati sulle esperienze negli ospedali, in cui i pazienti, ormai in condizioni serie, venivano trattati con dosaggi folli, di 2000 o addirittura di 4500 mg: a quel punto, però, il “Plaquenil” non faceva più effetto e, inoltre, a quelle dosi da cavallo, scatenava aritmie letali”. Il cardiologo sfata un altro tabù: “Si è creato un grande equivoco: considerare l’idrossiclorochina un antivirale. Finora non ho mai visto un antivirale realmente efficace contro il Covid: quelli utilizzati negli ospedali hanno solo l’effetto di accorciare i tempi del ricovero, ma non incidono in maniera significativa sulla guarigione. L’idrossiclorochina e il desametasone (un corticosteroide, ndr) agiscono invece sull’infiammazione, che, come detto, è il vero problema causato dal Covid. Di fronte alla situazione contingente urgono cure tempestive: i trattamenti devono iniziare prima che il paziente riceva l’esito del tampone. Quest’ultimo è un esame strumentale, ma la diagnosi spetta sempre al medico. Ci sono addirittura casi in cui il tampone è inutile, in quanto il virus ha già raggiunto gli alveoli polmonari, bypassando il tratto nasofaringeo”. Il dott. Salvucci guarda anche al vaccino: “Non sappiamo quando arriverà. Potrebbe essere utilizzato per quei soggetti che, per vari motivi, non possono assumere farmaci”. Nella scorsa primavera il cardiologo ha effettuato, in ospedale, centinaia di ecocardiogrammi ai malati Covid e curato personalmente una trentina di pazienti: “In questo periodo, invece, ne seguo centinaia”. Il medico sottolinea, però, che è fondamentale non trascurare le altre, gravi patologie. Non c’è solo il Covid: “Adesso sto fronteggiando anche l’ondata dei cardiopatici che, a causa della pandemia, non si sono sottoposti agli screening prestabiliti. Sto visitando tanti infartuati. Prima del Covid prescrivevo due o tre procedure invasive al mese in ambiente esclusivamente ambulatoriale e senza pronto soccorso, ora quattro o cinque alla settimana. È saltata la prevenzione: gli ingressi contingentati nelle strutture ospedaliere hanno dilatato enormemente i tempi di attesa delle visite e degli esami”.