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Economia italiana tra fantasia e realtà

5 Novembre 2015

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Economia italiana tra fantasia e realtà

Esistono varie economie, macro e micro in primis, locale, nazionale, internazionale e via dicendo. La confusione regna sovrana e le teorie (spesso bislacche) che si leggono in rete (e anche su qualche giornale) sono spesso frutto di congetture, letture di dati a senso unico ed unione di dati macro e micro, confronti non idonei e molto altro. Riguardo l’economia italiana si è detto tutto, spesso strumentalizzando informazioni od utilizzando le stesse a fini elettorali. Iniziamo dalle bugie che poi svilupperemo: non era vero e non è vero che il nostro paese fosse ad un passo dal fallimento, è falso che la nostra economia sia paragonabile a quella greca e spagnola, è non esatto che il nostro sistema economico sia il fanalino di coda europeo. Su questi pilastri i nostri mass media hanno creato confusione in connubio con molte forze politiche, abili nello sfruttare situazioni particolari per racimolare voti. Il sistema industriale italiano intanto perdeva pezzi (chiusure e fallimenti, Ilva su tutti) ma rimaneva saldamente nella top ten mondiale (la Spagna è solamente 26esima ad esempio). Chiaramente non vanno dimenticati i sacrifici pagati dai cittadini, molti dal 2008 ad oggi hanno perso il lavoro, altrettanti hanno diminuito il potere d’acquisto (blocco di contratti, part time forzati etc) e come logica conseguenza i consumi sono calati. Questo circolo vizioso ha portato l’Italia a fare tagli su tagli per la quadratura dei conti. In tutto questo però il nostro paese non ha ricevuto un centesimo (Spagna, Irlanda etc invece si), anzi ha contribuito (e non poco) a rimpinguare il fondo salva stati, utilizzato da spagnoli e greci per esempio. Detto questo chi paragona l’economia italiana, fortemente industriale e con gruppi come Finmeccanica o Fincantieri nei primi dodici colossi mondiali, marchi di prestigio, un settore enogastronomico tra i primi ad economie come la greca o la spagnola merita d’essere messo dietro la lavagna. L’Italia rappresenta una delle quattro forze economiche europee insieme a Francia, Germania e Gran Bretagna. L’Italia inoltre risulta la quarta riserva aurifera mondiale, avanti solo Germania, Usa e Fmi, abbiamo il doppio dell’oro della Cina ad esempio e siamo molto più avanti della Russia. Vero che molti compensano con materie prime, ma in Europa sono Italia e Germania ad avere riserve aurifere in grado di bilanciare l’Unione. Passiamo alle note dolenti. Il rapporto Debt and (not much) deleveraging (stilato dal McKinsey Global Institute) parte da una constatazione: il mondo è troppo indebitato ma, soprattutto, durante la crisi economica, cioè negli ultimi sette anni, tutti (Stati, imprese e famiglie) hanno aumentato i propri debiti, non li hanno affatto ridotti. Dal 2007 al 2014 le 47 maggiori economie del mondo hanno preso in prestito 57 mila miliardi in più rispetto a prima che iniziasse la Grande crisi. Vediamo i numeri, con l’avvertenza che quando McKinsey Global Institute parla di debito include quello statale, quello delle famiglie e quello delle imprese non bancarie. Notate bene: quello delle 47 principali economie del mondo ha toccato l’iperbolico rapporto del 286% rispetto al PIL.

Chi l’ha aumentato di più sono stati: Portogallo (del 100%), Cina (83%), Grecia (103%), Singapore (129%) e Irlanda (172%), mentre l’Italia si è fermata al 55% che porta il nostro debito complessivo (sempre pubblico più privato) al 259% rispetto al PIL. Ma passiamo all’Italia. Come in quasi tutti i Paesi presi in considerazione dal rapporto, anche da noi sia lo Stato, sia le famiglie, sia il settore industriale hanno incrementato i loro debiti: lo Stato di 47 punti percentuali, le famiglie di cinque, e le imprese di tre. Ma ammesso  che il debito sia un male (oltre una certa soglia lo è certamente, difficile è stabilire quale sia questa soglia, soprattutto per gli Stati), c’è chi è riuscito a diminuirlo.

«In effetti, ci sono anche buone notizie che emergono dal rapporto», spiega l’economista Puglisi, «bisogna cercarle dal lato delle istituzioni finanziarie: le banche hanno diminuito in maniera decisa il loro grado d’indebitamento, e nel contempo il “settore finanziario ombra” – cioè i soggetti come banche d’affari, fondi monetari e fondi speculativi che prestano soldi pur non essendo banche – svolge un ruolo più contenuto, e soprattutto diminuisce il contenuto di rischio delle sue operazioni». Alcuni Paesi, spiega McKinsey, come ad esempio la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia, se vogliono avere qualche possibilità di ridurre il proprio debito in futuro, devono ridurlo al ritmo del 2% l’anno. Un’operazione possibile? Sì se l’economia cresce in parallelo, in Italia ad esempio, del doppio rispetto a quanto previsto. Ora, sempre per stare ai numeri: le proiezioni internazionali dicono che l’Italia crescerà dello 0,9% l’anno tra il 2014 e il 2019 ma, a parte il fatto siamo già in ritardo (il PIL 2014 è stimato essere negativo per lo 0,4%), per avere qualche speranza di salvarci dalla spirale del debito avremmo bisogno di crescere di almeno l’1,9%. In caso contrario il rapporto tra debito e PIL salirà al 151% rispetto al PIL nel 2019. Ma il bello arriva adesso, cioè arriva quando McKinsey si chiede come si può uscire dalla spirale del debito. Intanto suggerisce che per evitare di farne di nuovo, soprattutto da parte dei privati, bisognerebbe abolire gli sconti fiscali per chi sottoscrive un mutuo immobiliare, anche se sembra impossibile proporre una misura del genere in Usa, o anche in Italia, dove la possibilità di detrarre dalle tasse la spesa per comprare la casa è considerata un diritto umano.

Ma è quando si parla di come ridurre quello esistente che entra in scena Piketty perché, scrive McKinsey, la prima strada è quella di una super-tassa patrimoniale mondiale che dovrebbe servire non tanto per ridurre la disuguaglianza tra le persone ma per ripagare i debiti statali, quelli che sono aumentati di più. La seconda strada è quella di una ristrutturazione del debito, espressione elegante dietro la quale si cela la proposta di un taglio netto dello stock del debito di uno Stato. Questa è stata la promessa elettorale con la quale Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra Siryza ha vinto le ultime elezioni greche; il fatto che la trattativa con l’Europa gliel’abbia fatta rimangiare è un altro discorso.

La terza strada è la privatizzazione di buona parte delle proprietà pubbliche. Insomma: McKinsey, Piketty e Tsipras dicono, con accenti diversi, la stessa cosa. Ma nelle ricette di McKinsey c’è anche una spruzzata di Salvini, il leader della Lega che propone l’uscita dall’euro. Il think tank cita, infatti, come esempi virtuosi quelli di Finlandia e Svezia. I due Paesi, negli anni ’90, aumentarono considerevolmente il debito pubblico durante una recessione, ma il debito privato si ridusse rapidamente, grazie agli investimenti statali e questo portò benefici anche al settore pubblico. In Italia questo aspetto non è mai preso in considerazione.

La crescita economica ripartì anche grazie al conseguente deprezzamento delle monete nazionali di oltre il 30%, che provocò una forte crescita delle esportazioni. Tutte operazioni che possono essere perseguite solo con una moneta nazionale, con la sovranità monetaria ovvero, come appunto dice Salvini, l’uscita dall’euro. E, forse, è proprio questo quello che McKinsey vuole dirci? Forse sì, forse no. L’Euro strutturato come ad oggi non serve a nessuno, troppo forte per alcuni, troppo debole per altri. Creare due monete non cambierebbe troppo la situazione, anzi la moneta più debole potrebbe alla lunga fagocitare la più forte. Le soluzioni? Molte ma azzardate – il ritorno alla sovranità monetaria parziale o la creazione di una vera entità europea politica prima che economica. I dislivelli di oggi hanno portato paesi al collasso e altrettanti (l’Europa dell’Est) a contare molto poco. Dopo queste riflessioni l’aspetto più importante è la competenza e la chiarezza: le soluzioni siano spiegate ai cittadini prive d’ideologie o strumentalizzazioni politiche, ricche però d’ipotesi e sguardi, avulse da paragoni assurdi (siamo come la Grecia ad esempio, paese con il PIL delle Marche) e scenari catastrofici (in autunno, privamera, estate, inverno falliremo) non supportati da fatti. Per una volta in economia vinca la chiarezza d’intenti.

Fonti

Debt and (not much) deleveraging

Businesspeople

New York Times

The Economist

Giornalista pubblicista, originario di Bolzano si occupa di economia, esteri, politica locale e nazionale