Cronaca

Il negazionismo e il carcere

26 Ottobre 2013

Il negazionismo e il carcere

Il negazionismo e il carcereIl genocidio degli Ebrei può essere contestato?  Il fenomeno della contestazione di tale “storica verità”, che coinvolge aspetti di natura culturale, morale e giuridica e le soluzioni da adottare non sempre decreta adeguata corrispondenza.

 

«In qualunque modo questa guerra finisca quella contro di voi l’abbiamo già vinta perché non sopravviverete per testimoniare, e i pochi superstiti non saranno creduti» così testimoniava lo scrittore torinese Primo Levi nel suo libro “I sommersi e i salvati” perché così viveva la sua esperienza da deportato nel campo di concentramento di Auschwitz e così interpretava l’obiettivo dei nazisti di imporre una propria verità come unica lettura storica. Si tratta d’indiscutibile verità storica oppure di consapevole falsificazione e di truffa storica? La storia è manipolabile dai “vincitori” quali padroni della verità? E’ attendibile la cosiddetta “industria dell’Olocausto come speculazione economica e fonte di guadagno? E ancora la verità diventa vera ed efficace con una legislazione penale antinegazionista e “confortata” nelle aule dei Tribunali?  Perché attribuire al Giudice il compito e potere di accertare la “storia” e quindi le ragioni politiche e sociali che muovono l’umanità e non a mezzo del  dibattito politico e culturale? Il sale della democrazia non è forse il libero confronto di opinioni e di idee ed anche del dissenso? Lo spirito della nostra Costituzione non rispecchia forse la libertà di espressione come modo per misurare la democraticità del sistema? Per quanto ci riguarda più da vicino: perché nel nostro Paese non c’è stata la “Norimberga Italiana” ossia un processo – analogo a quello di Norimberga – contro il comando militare nazista che operò in Italia, voluto dapprima dagli Alleati e poi non celebrato? Chi sono i “gendarmi della memoria” evocati nel titolo del saggio di Giampaolo Pansa? Le verità “scomode” devono o no intaccare l’immagine storica tramandata? Non mi meraviglio ed anzi ritengo legittimo che in uno stato democratico possano vivere e convivere convinzioni tra di loro difformi e in contrasto  con la storia ufficiale: tuttavia non credo giusto che tali giudizi e posizioni siano  oggetto di “recriminazione penale”. Il voler negare i noti e tristemente famosi campi di concentramento è un’opinione che non può essere combattuta, in spregio all’articolo 21 della Costituzione con il tappar la bocca a suon di minacce di carcere. Andiamo con ordine (temporale) partendo dall’anno 2006 quando il Parlamento cancella una serie di reati cosiddetti di opinione perché incompatibili con la libertà di pensiero e di opinione dello stato delineato dalla Costituzione repubblicana. Subito dopo nel 2007 il governo propone di intro­durre nel codice penale il reato di negazionismo. «Siamo di fronte a una di quelle misure che si rivelano al tempo stesso inefficaci e pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero debellare, e tuttavia producono effetti collaterali pesantemente negativi». Queste parole le scrive il giurista Stefano Rodotà. La norma non “passa”. Ai giorni nostri torna di attualità la criminalizzazione delle posizioni considerate eretiche dalla storia ufficiale: la Commissione Giustizia del Senato – in analogia ad altri paesi e su suggerimento europeo – approva un emendamento all’articolo 414 del codice penale che prevede una pena detentiva sino a 5 anni per chi «nega l’esistenza di cri­mini di genocidio, crimini di guerra o contro l’umanità». In altri termini è tornata la guerra al negazionismo con il quale si designa la posizione di quanti operano per “storcere” la realtà storica consolidata dai vincitori: in termini semplici essi negano o minimizzano l’esistenza dell’Olocausto. A me sembra di tornare indietro e “mortificare” il valore stesso dell’ordinamento democratico. Ricordo la famosa legge Scelba del 1952 in cui all’articolo 9 si prescrive la compilazione di testi ufficiali da adottare per “l’insegnamento dell’attività antidemocratica del fascismo”. Certo è apprezzabile essere in prima linea per guardare in faccia il brutto passato e i tragici eventi e non fermarsi sui rituali e sulle commemorazioni, ma è inadeguato e controproducente stabilire la verità storica per legge come se il sistema legale–giudiziario avesse un potere quasi magico per giungere alla costruzione della verità ufficiale. Aggiungo che ho paura all’idea di una protezione della storia e della democrazia mediante l’esclusione di chi la pensa “in altro modo” perché è la trasposizione della tecnica politico-legislativa della criminalizzazione delle parole, propria dei regimi autoritari. Se è condivisibile affermare che la verità non s’impone per legge ma è la storia che la spiega e le testimonianze che la sostengono allora sono lo Stato e le Sue Istituzioni (leggasi scuola) ad aiutare la società civile, la quale attraverso una continua battaglia culturale, etica e politica, può creare l’unica difesa per eliminare le posizioni negazioniste: produrre leggi penali o ricercare la verità attraverso la verità legale è una falsa soluzione.