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La caduta del pensiero critico: la libertà d’insegnamento è in pericolo? Il punto con il prof. Luca Marini

9 Marzo 2024

La caduta del pensiero critico: la libertà d’insegnamento è in pericolo? Il punto con il prof. Luca Marini

La libertà d’insegnamento universitario sembra attraversare un periodo davvero difficile. Dopo il caso del professore della Statale di Milano, sospeso per un mese dallo stipendio perché reo di avere diffuso un meme considerato sessista, all’Università ‘La Sapienza’ di Roma tira aria di epurazione per una docente colpevole di avere auspicato l’apertura di un confronto sugli anni di piombo, proprio mentre la Rettrice dell’Ateneo romano è accusata dalle femministe di non esporsi a sufficienza contro le molestie subite dalle studentesse della Scuola di medicina legale dell’Università di Torino. Precisazioni doverose: la finalità di questo articolo non è quella di entrare nel merito delle vicende di cronaca, né tantomeno di trovare una qualsivoglia giustificazione alla violenza in generale, che condanniamo convintamente. Prendiamo categoricamente le distanze dalle azioni violente ed eversive, manifestando la nostra solidarietà alle vittime. Il punto non è questo. L’obiettivo dell’articolo è, invece, quello di porre degli interrogativi sulla questione di fondo e cioè: la libertà di pensiero (e quindi d’insegnamento) è in pericolo? Il ‘politicamente scorretto’, o meglio il dissentire, rappresenta davvero un pericolo per la società? E quale ruolo stanno giocando i social media?

Per comprendere meglio cosa sta accadendo nel mondo universitario abbiamo intervistato il prof. Luca Marini -docente di diritto internazionale all’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’- che recentemente, sulle nostre pagine, è intervenuto per fornire una lettura critica del processo di internazionalizzazione degli Atenei italiani.

Professore, alla luce delle vicende di questi giorni ritiene che la libertà di pensiero, e quindi di insegnamento, stia correndo il rischio di scomparire dall’università?

“In effetti tira una gran brutta aria nel mondo universitario. Il Covid ha inaugurato una stagione di criminalizzazione delle opinioni minoritarie e non allineate e i casi saliti alla ribalta mediatica costituiscono solo la punta dell’iceberg. Intendiamoci: con le dovute eccezioni, la carriera universitaria ha sempre richiesto l’appartenenza a un sistema di potere, gestito individualmente o da cordate accademiche, ma oggi si richiede ai docenti l’adesione incondizionata a un sistema che si sta strutturando sempre più – con regolamenti, commissioni di garanzia, comitati etici e altri pseudo-tribunali interni – per sanzionare ed espellere i corpi estranei, ossia chi si ostina a esercitare la libertà di pensiero critico e di insegnamento secondo lo spirito dell’art. 33 della Costituzione”.

Una sorta di totalitarismo accademico?

“Diciamo che l’accademia accoglie con grande naturalezza, quasi con spontaneità, quella impostazione, di chiara derivazione liberal-globalista, che di fatto finisce per favorire l’instaurazione di una vera e propria dittatura culturale. A parte i casi dei docenti ricordati in apertura, la vicenda degli studenti della Bocconi sospesi per avere criticato la scelta del loro Ateneo di adottare bagni gender free dà la misura di quanto sto dicendo. E quel che è peggio è che gli studenti in questione sono stati sospesi dopo essere stati denunciati da un loro collega: la delazione assurta a bandiera del politically correct, direi”.

La colpa, quindi, è di un malinteso senso di progressismo?

“È innegabile che il messaggio liberal trova uno dei suoi terreni più fertili proprio nel mondo accademico. Provi ad assistere alla discussione delle tesi di laurea nei corsi dedicati, che so, alle nanotecnologie o alla biomedicina, ma anche al multiculturalismo, alla cooperazione internazionale, alle migrazioni: da quelle tesi e da quegli studenti si leva un coro unanime, ma spesso inconsapevole, di adesioni acritiche ai feticci del globalismo transumanista che politica e media presentano come assolutamente intoccabili sul piano comunicativo e culturale. Ma ciò che è peggio è che, se finora questi corsi di laurea venivano creati sulla base della fantasia più o meno spigliata di docenti accomunati dallo stesso imprinting socio-politico, l’ingresso sempre più massiccio dei finanziamenti privati e degli interessi a essi sottesi nell’università italiana sta determinando una specie di rincorsa all’attivazione dei corsi di laurea più funzionali e graditi a quegli interessi. È agevole intuire che, in queste condizioni, la dittatura culturale cui facevo riferimento prima è destinata a radicalizzarsi”.

E cosa pensa dei casi ricordati in apertura? Non crede che i docenti della Statale di Milano e della Sapienza di Roma si siano esposti un po’ troppo?

“Io credo, invece, che siano vicende estremamente preoccupanti dal punto di vista della salvaguardia della libertà di pensiero e di parola: docenti messi alla gogna e sanzionati perché colpevoli di avere espresso la propria opinione. È vero che, quando non c’erano i social media, queste opinioni sarebbero state espresse in un salotto e lì sarebbero rimaste, mentre oggi hanno diffusione, come si dice, virale: del resto, la diffusione dei social è stata incoraggiata proprio da chi ha interesse a reprimere, e non a favorire, il pensiero critico, e dunque a soggiogare intere comunità”.

Quindi anche i social media hanno la loro fetta di responsabilità?

“È sotto gli occhi di tutti che i social media sono diventati, dopo una prima fase di esaltazione favorita ad arte, il collo di bottiglia attraverso cui far passare – e controllare – tutte le forme di espressione del pensiero, critico e non. Del resto, se Lei volesse controllare le opinioni dissenzienti di complottisti, avversari politici, concorrenti commerciali, esponenti di ciò che resta della parte raziocinante della società civile e chi più ne ha più ne metta, preferirebbe che tutti costoro si riunissero in clandestinità, come i carbonari, o che si esponessero su piattaforme virtuali di portata planetaria e, quindi, controllabili e perseguibili?”.

Però deve ammettere che celebrare le scappatelle giovanili di politici d’oltre oceano ed esprimere cordoglio per la morte di una terrorista non rientra tra i compiti precipui di un docente universitario…

“Qui non è in discussione lo specifico pensiero, ma la libertà di pensiero. Nella sede deputata a favorire il pensiero critico, ossia l’università, le opinioni si valutano, si confrontano ed eventualmente si confutano: non si processano e si sanzionano a priori. Per chi lo ha letto davvero, emerge evidente che il post della mia collega di Ateneo (la prof.ssa Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica, n.d.r.) si limitava a ricordare la persona scomparsa (la terrorista Barbara Balzerani, n.d.r.) e non i mezzi da quest’ultima utilizzati per realizzare la trasformazione radicale cui parte di quella generazione aspirava: e trovo di grande interesse, dal punto di vista storico e culturale, la sollecitazione della collega ad aprire una riflessione sugli anni di piombo, al di là di quelle stereotipate invalse fino a oggi. Per tornare alla domanda, il problema è un altro: se oggi stigmatizzo il docente X perché critica o, all’opposto, perché plaude a Tizio o a Caio, a chi toccherà domani? Pensi alla guerra russo-ucraina o al cambiamento climatico: quanto ci vorrà prima che il docente Y sia epurato perché sostiene che la CO2 potrebbe non essere la causa del presunto global warming? Siamo di fronte a preoccupanti svolte autoritarie”.

Certo che, con le Sue idee, non ci sarebbe da stupirsi se prima o poi qualcuno le metterà i bastoni tra le ruote.  

“Se è per questo me li stanno già mettendo: negli ultimi giorni, in nome di una discutibile internazionalizzazione dell’università, che finisce per penalizzare prima di tutto gli studenti italiani di atenei italiani operanti in Italia, ho assistito impotente allo stravolgimento del mio ultraventennale assetto didattico. Il mio insegnamento di diritto internazionale, che per decenni è stato l’unico della Facoltà dove insegno, è stato trasformato in un modulo a scelta degli studenti, per fare spazio a un analogo insegnamento in lingua inglese e al relativo, nuovo docente; e il mio insegnamento di bioetica è stato addirittura soppresso e sostituito con un analogo insegnamento in lingua inglese, che io sono stato “gentilmente” invitato a tenere pena la perdita dell’insegnamento medesimo. Ma la cosa più singolare è che la decisione che ha portato a questo risultato, adottata contro il mio parere, evidenzia delle macroscopiche falle procedurali che ho sottoposto alla Rettrice del mio Ateneo, da cui però non ho ancora ottenuto risposta”.