L’olio, pianta antica

La fantasia e la necessità dell’uomo hanno saputo ricavarlo dal mais, dalla colza, dalle arachidi, dal girasole, dalla noce (orribile lo definiva Cicerone per il gusto acre), dalla mandorla, dal mirto, dal rafano e fino dal riso. Ognuno vantando specifiche qualità organolettiche. Della potenzialità commerciale dell’olio ne seppero qualcosa i Greci, gli Etruschi e i Romani, e successivamente la Repubblica di Genova per gli scambi nella parte tirrenica, e la più longeva Repubblica di Venezia in grado di creare vie di trasporto alternative a quelle del vino per rifornire con le produzioni dell’Adriatico le zone del Nord europeo. Tuttavia successe qualcosa nella storia e nella storia del gusto che relegò l’olio alle tavole dei ceti più elevati. Il condimento di origine vegetale, grasso magro, aveva il vantaggio di superare le barriere imposte dalla precettistica del calendario liturgico, essendo ammesso nei giorni di osservanza, e di essere una vera e propria ghiottoneria per chi ne amava il sapore. Bartolomeo Scappi (1570), cuoco personale di papa Pio V, ci testimonia che burro e olio potevano essere usati indistintamente per cucinare qualsiasi vivanda. Tuttavia non mancano accorati appelli per il consumo dell’olio: il burro non è alimento degno del grado signorile, dal momento che nuoce allo stomaco e alla digestione, ricorda a metà Quattrocento il padovano Michele Savonarola, preoccupato per il rango e la salute del suo signore, Borso d’Este. In seguito, con l’affermarsi della cucina francese, che probabilmente aveva conosciuto l’impiego di olii di oliva scadenti destinati all’esportazione, si andò consolidando l’uso di condimenti di origine animale. E se un povero si fosse mai sognato di riempirsi lo stomaco, lo avrebbe fatto condendo gli agognati piatti con dei bei pezzi di lardo, non certo con l’olio. Testimone di questa commistione ormai consolidata nei secoli è Pellegrino Artusi, che invita ciascuno a usare “l’unto” come più gli aggrada: l’olio dove è buono, burro o lardo dove per tradizione si è abituati a impiegarli. Quale olio? Nelle note spese per il rifornimento di banchetti signorili una cosa salta all’occhio. Della quantità di vino acquistata viene quasi sempre specificata la qualità (vin greco, vin leggero, malvasia), dell’olio (o oglio) si indica solo la quantità. Eppure le varietà
di olive del Bel Paese erano e sono tante: arnasca, taggiasca, carboncella, ciliegino,
moraiolo, corniola, rotondella, ogliarola, nocellara, bosana… Alla domanda “Gina, mi passi l’olio?” la possibile risposta del moderno consumatore consapevole potrebbe essere: “Quale caro? Quello dolce? Quello dolce con nota piccante? Quello piccante con nota dolce? Quello decisamente piccante? Ah!! Abbiamo anche un blended da sette cultivar diverse!”. In Italia disponiamo di una produzione di 39 olii DOP e un IGP tra cui scegliere, portafoglio permettendo. Auguriamoci un buono, sano olio extravergine di oliva a tutti!