Pizza e cappuccino con pass e tamponi: una strana libertà

Mai come quest’anno la Festa della Liberazione ha assunto, per qualcuno, un significato che va oltre quello storico, tradizionale. Da quattordici mesi mezzo mondo sta facendo i conti con la pandemia da coronavirus che, a quanto pare, non sembra arrestarsi. In nome della prevenzione e del rischio contagio i diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione sono stati ripetutamente disattesi: viviamo da tempo in una condizione di libertà apparente, che ci impedisce di coltivare relazioni sociali e, per alcune categorie, persino di lavorare.

QUALE LIBERTÀ? I movimenti sono estremamente circoscritti, l’attività fisica è pressoché vietata, al pari di ogni forma di intrattenimento. Per un certo periodo era addirittura proibito sedersi sulle panchine pubbliche, allontanarsi da casa per una semplice passeggiata. Consumare un caffè o un gelato all’aperto è tuttora un atto contestato o persino sanzionato e per camminare mano nella mano bisogna “dimostrare” di essere congiunti. Il dialogo fra le persone, con il suo corredo di mimica facciale ed espressività, è sostanzialmente negato (non è consentito conversare a distanza ravvicinata in assenza della mascherina); sono spariti baci, strette di mano e abbracci (se non altro in pubblico), che sono stati invece sostituiti da “tocchi” di gomito, da sorrisi, da lezioni e da incontri solo virtuali, tramite chat e videochiamate. Non c’è giorno in cui il “televirologo” di turno non si esprima con preoccupazione sulla diffusione della pandemia, sciorinando dati allarmanti e sostenendo la necessità di misure restrittive, giustificate dalla volontà di contenere i contagi. Opinioni che poi vengono puntualmente mutate, rettificate, integrate, a qualsiasi ora.

GESTIONE NEBULOSA. Intanto la cronaca ci informa, quasi sottovoce, che nell’ultimo anno è diventato sempre più difficile curarsi per patologie non Covid (i risultati, drammatici, diffusi dall’Osservatorio Nazionale Screening: https://www.osservatorionazionalescreening.it/content/rapporto-sulla-ripartenza-degli-screening-settembre-2020). La gestione e i numeri della pandemia sono avvolti ancora da una fitta nube di mistero. Le informazioni sui positivi al tampone e sui decessi vengono amplificate, diffuse quotidianamente e ossessivamente, generando confusione, dubbi interpretativi e paura. La classificazione dei malati e dei deceduti non è chiara, tant’è che nei giorni scorsi il prorettore dell’”Università Vita-Salute San Raffaele” di Milano, il professor Alberto Zangrillo, ha dichiarato che “I dati vanno rivisti. Se nel mio ospedale arriva una persona per infarto e si scopre che ha il coronavirus, viene poi catalogata come morto Covid. Mi sono documentato con molta precisione”. In tema di prevenzione, poi, le Regioni hanno spesso adottato strategie diverse, nonostante la pandemia fosse di esclusiva competenza dello Stato (art. 117, 2° comma, lettera q della Costituzione), come ribadito il 24 febbraio dalla Corte Costituzionale (il comunicato:https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20210224190746.pdf): “La Corte ha ritenuto che il legislatore regionale, anche se dotato di autonomia speciale, non può invadere con una sua propria disciplina una materia avente ad oggetto la pandemia da COVID-19, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di profilassi internazionale”.

LA “VIA ALTOATESINA”. In fatto di provvedimenti quanto meno eccentrici, l’Alto Adige si colloca di diritto ai vertici nazionali: giova ricordare lo scandalo sugli “scaldacollo” e sulle forniture di mascherine, l’impiego dei cani anti-Covid, il pasticcio colossale derivante dall’introduzione dei test nasali nelle scuole. A fine novembre la Provincia autonoma si era distinta per lo screening di massa più imponente d’Italia (oltre 360 mila persone testate, poco più di 3600 quelle risultate positive al test antigenico). Screening che, secondo gli esperti locali, avrebbe consentito agli altoatesini di tornare alla libertà entro la fine di febbraio. A proposito: qualcuno l’ha vista, la tanto agognata libertà? L’ultima chicca, oggetto di discussione anche in ambito nazionale e non solo, riguarda l’introduzione del “CoronaPass”, il certificato che consentirà alle persone vaccinate, testate o guarite di accedere alle “CoronaPass Areas”. L’adesione all’iniziativa è teoricamente facoltativa, di fatto obbligatoria: se sprovvisti del pass non sarà più possibile, nel prossimo futuro, mangiare una pizza o sorseggiare un tè in un locale privo di spazio esterno, frequentare cinema, teatri, partecipare a fiere, congressi e nemmeno allenarsi in palestra. Tutte le attività al chiuso saranno limitate ai soli possessori del certificato. Per ottenerlo sarà necessario aver soddisfatto almeno uno dei seguenti requisiti (il link ufficiale: http://www.provincia.bz.it/sicurezza-protezione-civile/protezione-civile/corona-pass.asp): essersi sottoposti alla vaccinazione contro il Covid (considerata “scaduta” se effettuata da oltre 6 mesi), al tampone (il test ha una validità di 72 ore) oppure dimostrare di aver contratto il virus e di esserne guariti, ma anche qui da non più di 6 mesi. Come si può facilmente intuire, nemmeno tale “CoronaPass” concederà il diritto alla piena libertà, come specificato dalla stessa Azienda Sanitaria dell’Alto Adige: “Secondo le ricerche scientifiche, il test rapido antigenico non può garantire al 100% che una persona risultata negativa al test non abbia sviluppato alcuna infezione. Tra le persone vaccinate o guarite la possibilità di infezione è molto ridotta, tuttavia non è da escludere. Per questo è importante rimanere prudenti e continuare a rispettare le norme sanitarie. Nei locali chiusi di bar e ristoranti valgono le regole di prevenzione come fino ad ora”. In poche parole: sul piano strettamente scientifico il “CoronaPass” non offre alcuna garanzia di debellare o di contenere la patologia. Sui vaccini anti-Covid si sono spese fin troppe parole: ferma restando la loro “autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni” (di cui forse pure alcuni illustri accademici sembrano essersi dimenticati), è tuttavia opportuno ricordare che non danno la certezza di conferire al soggetto immunità sterilizzante, ovvero di impedire che il vaccinato possa trasmettere la malattia (fonte ISS: https://www.iss.it/covid19-faq); inoltre, allo stato attuale, non è nemmeno certa la durata della protezione vaccinale individuale (prova ne sia il fatto che viene attribuita al pass una durata di appena 6 mesi!). Fa poi sorridere il fatto che al test sia stata riconosciuta una validità “temporale”, quando è chiaro a tutti che, oltre a non risultare infallibile, esso non tiene conto dell’eventuale fase di incubazione della patologia. Sulla base di quali evidenze scientifiche inconfutabili è stato quindi introdotto il “CoronaPass”? Chi e perché obbligherà un avventore, sprovvisto del certificato (ma, fino a prova contraria, assolutamente sano) a consumare solo all’aperto, ammesso sempre che l’esercizio disponga di un dehor? Chi si assumerà le responsabilità degli eventuali danni economici subiti dagli operatori del settore? Siamo veramente sicuri che una simile decisione favorisca il ritorno alla normalità, nonché il turismo e, più in generale, la libera circolazione delle persone? Sulla questione dei “pass vaccinali” si sta muovendo, infine, anche il Garante: https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9578203.

DOV’È LA POLITICA? Dove sono finiti gli esponenti dei vari partiti? Dove il loro giudizio, la presa di posizione su quanto e come si legifera? Se le questioni dirimenti la salute sono di competenza provinciale, c’è tuttavia da interrogarsi sul silenzio, divenuto quasi un perenne assenso degli amministratori del territorio, interrotto solamente da qualche sussurro degli esponenti dell’opposizione, in merito a decisioni che stanno condizionando enormemente la vita dei cittadini. Inoltre, quali tutele sono state approntate per i lavoratori, per le partite iva e per i giovani? Il piacere o il semplice svago vengono criminalizzati: l’industria del divertimento, che in epoca pre-Covid fatturava cifre da capogiro, sembra destinata all’estinzione. Il diritto al lavoro vacilla pesantemente, l’iniziativa economica privata è posta a rischio. Serpeggia infine un pericoloso concetto, quello per cui, in fin dei conti, l’imprenditore lungimirante deve aver accantonato capitali che gli permettano di superare qualsiasi avversità nel tempo, indipendentemente dall’erogazione di aiuti economici.

LE CURE. Alla luce di scenari incerti e di decisioni che potrebbero rivelarsi nuovamente fallimentari sotto molteplici aspetti, stride il fatto che nessuno (o quasi) prenda in considerazione il ricorso alle cure, rinforzando la medicina territoriale. Questo giornale si occupa della tematica delle terapie domiciliari per il trattamento del Covid in fase precoce dallo scorso novembre. Fatta qualche eccezione, il mainstream non ha mai contemplato la possibilità che il Covid fosse una patologia gestibile a casa. Secondo l’opinione comune, chi guarisce spontaneamente dal Covid, senza ricorrere alle cure ospedaliere, è soltanto “fortunato”. Fin dall’inizio della pandemia è prevalsa la linea di dichiarare inefficaci tali cure: contro la forma severa del virus non ci sarebbe alternativa al ricovero, perché non esisterebbero farmaci, da somministrare tempestivamente e a domicilio, idonei a prevenire le complicazioni della malattia. Complicazioni che, è bene ricordare, possono colpire chiunque, ma che si rivelano estremamente pericolose nei confronti degli anziani e di chi soffre di patologie pregresse (l’età media dei decessi, in Italia, è di 81 anni, come confermato il 30 marzo dall’ISS: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Report-COVID-2019_30_marzo_2021.pdf). È singolare invece e importante sottolineare che, a sostenere la curabilità del Covid fra le mura domestiche, in fase precoce, siano reti di medici (ormai particolarmente estese), operanti attivamente su tutto il territorio nazionale e con l’evidenza dei risultati, tuttavia non di rado derisi, disprezzati, denigrati, snobbati, addirittura insultati e minacciati dalla pletora di quei colleghi osservanti solo le linee guida del Ministero, dal sicuro dei loro ambulatori e spesso non raggiungibili neppure telefonicamente da parte dei pazienti. Verrà tempo in cui qualcuno accerterà l’operato e le responsabilità di amministratori e istituzioni, sordi a quelle voci.

Francesco Servadio

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