Educare al fallimento, un mix equilibrato di gratificazioni e frustrazioni

Tempo di bilanci per la scuola. Ma anche tempo di sofferenze  per chi si aspettava risultati diversi, per chi ha debiti formativi da recuperare o addirittura viene bocciato. Ma ormai quelli che devono ripetere un anno sono pochi, perché in fondo la bocciatura non è più di moda. Di certo più è raro il fallimento scolastico e più è difficile da accettare. Per chiunque.

Per questo motivo i protagonisti delle vicende scolastiche ci stanno male. Ma una cosa è percepire il fallimento come una partita persa che deve essere recuperata e altro è la sensazione totale e irreparabile di una sconfitta. O, come accade di frequente a molti genitori, la percezione di un fallimento personale.  Di solito succede se, per motivi diversi prevale nell’adulto l’identificazione con il proprio figlio.

Di certo la perdita di un anno di studio produce sentimenti acuti di delusione, ma sorprendono sempre le lamentele e le che recriminazioni della famiglia accusa la scuola che boccia, l’aggressività e la rabbia che viene scatenata verso i professori ingiusti ritenuti incapaci di valutare, così come meraviglia anche la disperazione per un esito negativo percepito come una disfatta. Si tratta invece di leggere l’insuccesso scolastico come il risultato di un mancato apprendimento o la conseguenza di un insufficiente impegno nello studio che va segnalato e reso evidente anche ad un bambino. Il che è precisa e fondamentale azione educativa che attiene alle figure con queste funzioni come lo sono genitori e insegnanti.

Sostenere i compiti evolutivi in adolescenza vuol dire aver fornito fin dall’età  infantile un mix equilibrato di gratificazioni e frustrazioni. In quanto diventar grandi significa sapersi misurare con se stessi e con gli altri, riconoscere i propri limiti e allo stesso tempo saper tener botta e resistere di fronte alle prove e alle difficoltà.

Non accade questo se gli adulti di riferimento, carenti di autorevolezza e di reale presenza affettiva, non danno senso anche agli insuccessi e non sostengono lo sforzo che necessita il rialzarsi. Non è solo l’esperienza della bocciatura che va consentita, ma è soprattutto permettere che i piccoli si confrontino con le quotidiane e possibili cadute, con gli ostacoli e gli inciampi che servono e fanno sentire che si può farcela a riprendere il cammino dopo una forzata battuta di arresto. Questo è l’educare al senso del fallimento. È aiutare i ragazzi a metabolizzare gli insuccessi e a imparare dalle sconfitte.

Qualche giorno fa dopo la sconfitta Italia – Ucraina, Paolo Nicolato, ct Nazionale Under 20, sosteneva la necessità di dire ai ragazzi che non conta solo vincere. Trovo importante questo messaggio prima perché non giunge dal solito “esperto” e poi perché viviamo un tempo in cui, a casa come a scuola e nello sport, si enfatizzano quasi unicamente i successi e il modello di riferimento prevalente è “O vinci o sei fuori!”

Se facciamo crescere i bambini come piccoli imperatori davanti ai quali continuiamo a stendere tappeti rossi perché nessuno inciampi e si sbucci le ginocchia, avremo giovani a cui mancherà l’utile esperienza della fragilità e della fatica, li faremo diventar grandi con l’idea  di poter essere sempre supereroi potenti e invincibili ma anche adulti con scarse risorse o incapaci di affrontare gli ostacoli della vita, anche quelli più piccoli, perché deboli e vulnerabili, facilmente alle corde.

Educare i figli al senso del fallimento vuol dire non crescerli col mito del primo della classe che spesso è un modo per compensare le proprie insufficienze di genitori, quanto aiutarli ad accettare gli sbagli e correggerli. Significa affermare e sostenere il valore delle responsabilità personali e insieme dare significato alla fatica che serve per diventare donne e uomini autentici.

In foto, Giuseppe Maiolo
Psicoanalista – Università di Trento – www.officina-benessere.it

 

Giuseppe Maiolo

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