La storia di Karzan, scappato dal Kurdistan all’età di 12 anni e adesso imprenditore nel campo della ristorazione

(nella foto Mehmet a sinistra e Karzan a destra)

In via Roma 53 da qualche mese ha aperto Lo Spuntino XXL. Due giovani curdi, dalle toccanti storie di vita, hanno deciso di mettersi in proprio e tentare il tutto per tutto: aprire una loro attività nel campo della ristorazione. Oggi come oggi, soprattutto nel campo alimentare, diventa sempre più difficile ritagliarsi una piccola porzione di mercato. I fast food sono ormai innumerevoli, ciononostante ne nascono sempre di nuovi, specie se si guarda a Bolzano dove ormai ce ne sono a decine. Ma ciò che conta in questa circostanza non è tanto l’esercizio commerciale, quanto l’incredibile storia di vita di Karzan, giovane curdo di 27 anni, che in esclusiva ce la racconta.

Karzan, adesso hai 27 anni, puoi raccontare a Buongiorno Sudtirol com’è iniziato il tuo viaggio verso l’Europa?

Quand’è caduto Saddam Hussain, la situazione nel Kurdistan iracheno cominciava ad essere sempre più complicata ed allora mio nonno mi disse che da quando i suoi antenati si ricordavano il Kurdistan era sempre stato terra di guerra. I miei genitori non volevano che io andassi via, ciononostante sono partito da solo, senza dirgli nulla. L’unico informato era mio zio. Avevo solo 12 anni. Prima andavo in Iran, poi in Turchia e dalla Turchia in Grecia a piedi attraverso le montagne. Potevamo camminare solo di notte. Arrivato in Grecia sono rimasto lì a raccogliere olive. L’obiettivo era quello di mettere da parte i soldi per poi andare in Italia e da lì sperare di raggiungere il nord Europa.

Avevi solo 12 anni quando hai deciso di scappare dalla guerra. Cos’hai provato nel momento in cui hai lasciato casa? Quali sono state le emozioni che ti hanno accompagnato durante il viaggio?

Il pensiero che mio nonno non avesse visto neppure un giorno di pace, mi metteva angoscia. Non avrei voluto vivere una vita nella paura come i miei antenati. Da noi era normale che un giovane di 12 anni se ne andasse di casa, non rappresentava qualcosa di strano. I bambini a 5 anni già lavorano per strada. Io ad 8 lavoravo già: alle 4 di mattina andavo a prendere il pane dal panificio e poi giravo le vie del mio paese, vendendo pane caldo, urlando ad alta voce. Nel mia terra a 14 anni si fa già famiglia, basti vedere mia madre che all’età di 14 anni ha sposato mio padre, che ne aveva 16.

Per me andarmene non era quindi qualcosa di apocalittico, avevo si paura di lasciare la mia patria ed andare in un posto totalmente nuovo, ma mi sentivo già un adulto. Principalmente ciò che mi ha mosso è stata la fede in Dio.

Quali sono stati i momenti più difficili del viaggio?

Ci sono stati 2 momenti molto difficili, che ancora oggi faccio fatica a dimenticare. Le emozioni legate a quei momenti di vita me le porto ancora dentro, sono ancora vive in me. Per andare dalla Turchia alla Grecia, ci si muoveva con piccole imbarcazioni. Stavamo per imbarcarci e la barca partita poco prima della nostra si ribaltava a largo della costa, facendo precipitare in acqua donne, bambini, anziani e moltissimi ragazzi giovani. Pensavo ci saremmo fermati ad aiutarli, invece il pilota della nostra imbarcazione, alla richiesta di soccorso da parte sia di chi stava affogando che di chi era sulla sua barca, decideva di proseguire dritto. Affermava che se si fossero fermati, sarebbero morti anche loro. Per me è stata una scena di terrore che ancora oggi mi porto dentro. Non è facile vedere morire bambini e donne, soprattutto ancora più difficile accettare la propria impotenza davanti a queste cose. Ma il peggio non era ancora arrivato.

Mofaq, un carissimo amico curdo, cresciuto con me nella mia stessa città, era partito prima di me ed era già in Grecia, quando io ero arrivato lì. Insieme lavoravamo in un uliveto, presso una famiglia che ci trattava come figli. Natale per loro era Natale anche per noi. Il regalo che facevano ai loro figli, lo facevano anche a noi. Tuttavia entrambi volevamo andare in Italia e l’unico modo era quello di nascondersi sotto i camion, che si stavano imbarcando sui traghetti, diretti verso le coste italiane. Per 3 volte abbiamo provato a nasconderci sotto lo stesso camion e per 3 volte siamo stati scoperti e allontanati dalla zona portuale. La quarta volta siamo saliti, ma su 2 camion diversi. Il mio camion era carico e il suo non lo era. L’asse del rimorchio sotto il quale Mofaq si era nascosto, veniva allora alzato e lui rimaneva schiacciato sotto il rimorchio, perdendo la vita. Ancora oggi mi porto dentro il senso di colpa; ero probabilmente stato io a convincerlo a provare a scappare in Italia. Ogni giorno penso a lui, lo vedo e lo sento. Ma di queste scene per noi fuggitivi dalla guerra, ne capitano a migliaia.

Arrivi in Italia, non conosci l’italiano e non sai sopratutto cosa ti potrebbe succedere. Come hai affrontato l’esperienza italiana?

Il camion su cui mi ero nascosto era diretto verso la Germania. Ci avevano detto che dovevamo portare un sasso da sbattere sul rimorchio per far fermare il camionista, in modo tale lui pensasse ci fossero problemi al suo mezzo. Una volta sulla nave non c’erano difficoltà, potevo rilassarmi, perchè il camion era fermo e potevo sciogliere la schiena, sdraiandomi per terra.

Ma i guai sarebbero arrivati a terra, una volta con il camion in movimento. Ero in una posizione molto scomoda, con i piedi poggiati su uno degli assi del rimorchio e la schiena schiacciata sulla base del rimorchio. Per non cadere dovevo continuare a fare pressione, se avessi ceduto sarei caduto sull’asse anteriore al mio rischiando di finire divorato dalla strada. Ho resistito 7 ore, un dolore atroce, che soprattutto mi porto ancora oggi. Le mie vertebre della parte lombare sono rimaste schiacciate e lo saranno a vita. Non ce la facevo più ed alla fine ho bussato con il sasso. Pensavo già di essere in Germania, ma il camion era a pochi chilometri dal confine austriaco. Infatti ero arrivato a Bressanone. La polizia mi ha preso in custodia e mi ha portato a Bolzano, dove trascorrevo la prima notte al dormitorio in Via Renon. Il giorno dopo mi prendevano le impronte digitali e mi portavano a Kinderdorf presso Maia Alta, una comunità per i minori, dove mi sono sentito sostenuto e assistito dagli educatori. Da lì sono andato a scuola; infatti frequentavo la scuola professionale per falegname di Merano; per me era la prima volta che vedevo dei banchi di scuola, oltretutto studiare non mi era mai piaciuto perchè da piccolo mi era toccato lavorare tantissimo.

Dopo un anno di scuola, ho cercato di lasciare l’Italia. Ma prima avevo trovato un lavoro come aiuto cuoco a Tirolo, presso l’Hotel Lisetta. Una sera, di ritorno dal lavoro, stavo camminando lungo le passeggiate in direzione Kinderdorf, quando sono stato accerchiato da una trentina di “nazi” che mi hanno pestato a sangue. Ancora oggi sono in attesa di giudizio di quei 30 bastardi, che sono rimasti impuniti.

E dove sei andato?

Prima sono andato in Finlandia per 3 mesi e mezzo, poi sono finito in Germania dove dopo un’ora mi hanno rimandato in Italia, perché era stato il primo paese a raccogliermi le impronte digitali. Per le leggi europee devi rimanere nel paese, che ti ha preso per primo le impronte digitali. Dopo la Germania ho provato la strada dell’asilo politico in Inghilterra, in Irlanda, in Islanda, in Danimanca, in Svezia, in Norvegia sempre ricevendo esito negativo alla mia richiesta, proprio perchè questi paesi facevano leva sulla succitata norma europea. Alla fine ho deciso di rimanere a Bolzano, dopo tanti viaggi e molte delusioni.

Com’è stato il rientro in Italia?

Quando sono tornato dalla Norvegia, ho dormito 9 mesi e mezzo sotto il ponte Roma di Bolzano, avevo 17 anni. Capitavano interi giorni che non mangiavo. C’erano i giorni che andavo al parco della stazione dove venivano distribuiti pasti caldi per chi non se lo potesse permettere. Nel 2010 riuscivo finalmente a trovare lavoro presso la pizzeria Life di Bolzano; grazie ad Angelo, responsabile della pizzeria, ed alla sua famiglia ho ricevuto un grande sostegno ed ho potuto imparare una nuova professione. Infatti apprendevo l’arte del pizzaiolo e del cuoco. La signora Vincenzina, madre di Angelo, con amore mi insegnava a cucinare. Sono profondamente grato alla famiglia di Angelo, perchè se sono qui adesso è proprio grazie a loro.

Ma avevi un sogno nel cassetto?

Nella mia famiglia tutti erano falegnami. Tuttavia questo non ci portava ricchezza a sufficienza per sopravvivere. Avrei voluto sempre fare qualcosa di mio, ma il falegname non faceva per me. Allora sono arrivato alla conclusione che l’unico settore a non andare in crisi fosse quello della ristorazione. Da solo non avrei potuto fare niente; ad un certo punto ho proposto a Mehmet, come un fratello per me, di fare qualcosa insieme. Eravamo stufi di lavorare alle dipendenze di qualcuno e ci siamo lanciati quindi nell’impresa, ovvero quella di aprire un nostro piccolo punto di ristorazione. Infatti qualche mese fa è nato Lo Spuntino XXL, in cui stiamo investendo tutto ciò che abbiamo: lavoro, passione, amore, cuore e speranze. Ma un grazie particolare va a mia moglie Gerda, che ha saputo accogliermi e condividere una storia di vita così difficile, vita che adesso comincia a vedere una luce, quella luce che generalmente si manifesta alla fine del tunnel.

Giuseppe Marino

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