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I ritratti di Claudio Calabrese

17 Aprile 2016

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I ritratti di Claudio Calabrese

Di Armando Ginesi

Il ritratto ha avuto una sua utilizzazione nel passato dell’antichità classica, ma, in modo particolare, esso è stato una peculiarità (pittorica e scultorea) a partire dal Rinascimento, vale a dire da quel momento storico e culturale in cui il valore dell’individuo ha recuperato – e rafforzato – la sua centralità nel modo di essere e di costruire la propria società contemporanea.

Oltre ad essere uno strumento di espressione artistica esso ha costituito anche un importante documento storico e ciò almeno fino al XIX secolo, quando è apparsa sulla scena dell’evoluzione tecnologica, per dare rappresentatività alle cose, la fotografia. Prima soltanto il pittore e lo scultore possedevano la capacità di riprodurre le fattezze di un personaggio.  Del quale occorreva ridare la somiglianza ma, soprattutto, il modo essere interiore, affinché del soggetto rappresentato si potesse far conoscere la sensibilità, le virtù e i difetti intrinseci e, talvolta, anche più segreti.

Con il proporsi, dopo le avanguardie artistiche del XX secolo ma, soprattutto, le neoavanguardie della seconda metà del secolo, dell’astrazione intesa come superamento della rappresentatività oggettiva delle persone e delle cose, il ritratto, come genere, anche se non è mai scomparso del tutto, certo si è rarefatto e sempre meno sono stati gli artisti che vi hanno dedicato la loro attenzione.

Ma oggi si assiste ad una certa inversione di tendenza e più la tecnologia avanza verso la scoperta di modalità di penetrazione dietro e oltre le cose naturali e più, per reazione, sembra palesarsi il bisogno di recuperare l’esigenza, da parte della pittura soprattutto, ma anche della scultura in parte, di riproporsi come modalità di restituzione al mondo di ciò che un uomo, una donna, un anziano, un bambino, possono raccontare attraverso la loro fisionomia. E così il ritratto si sta riproponendo, come genere, nell’ottica di una concezione mimetica della rappresentazione visiva.

Io ho molte volte trattato, nei miei saggi, le peculiarità di fondo dell’artista: il suo essere, al tempo stesso, testimone, interprete e profeta. Testimone, perché vive e racconta (con i segni, le forme, i colori) il suo tempo; interprete, perché di esso può darci l’ermeneutica sua personale e quella del gruppo e dell’epoca a cui appartiene; profeta perché, convinto come sono della natura metafisica dell’arte, sono certo che egli, uomo limitato e finito, può dirci dell’infinito parlando “al posto di” e “parlando prima”  (è questa l’etimologia della parola tardo latina “pro-phèta”, che deriva dal greco “pro-femì”, che vuol dire sia parlare al posto di qualcuno sia parlare avanti, cioè prima). Ed è da questa capacità profetica che l’artista trae quella componente sciamanica che ebbe sin dal primo momento in cui apparve sulla scena dell’evoluzione umana, nell’epoca preistorica paleolitica, allorché colui che aveva capacità riproduttive del vero naturale, possedeva anche il potere di impossessarsene. Dapprima fece ciò con gli animali (e, stando alle teorie di Arnold Hauser, aveva il compito magico-sacrale di garantire gli esiti positivi della caccia sfamando quindi il gruppo di appartenenza) e poi con le cose e gli esseri umani. Riproducendone, infatti, le fattezze, si impossessava magicamente di esse. Delle loro anime. L’antropologia culturale, del resto, ci insegna per quanti secoli le civiltà primitive abbiano avuto questo convinzione e tuttora, in certi angoli sperduti delle foreste amazzoniche o australiane, gli aborigeni temano di essere fotografati, convinti come sono che, con la loro immagine, anche l’anima si trasferisca dal soggetto ritratto alla sua raffigurazione.

Superstizione? Certo. Ma con un fondo di verità. Nel senso che colui che ben sa riprodurre l’intimità del soggetto è come se penetrasse dentro di esso per portarne fuori l’essenza, ma senza che ne resti privo, capace com’è, lo spirito, di rigenerarsi.

Ed è ciò che Claudio Calabrese compie quotidianamente praticando la ritrattistica pittorica. Utilizzando pennellate larghe, corpose (che a volte sembrano spatolate) questo bravo artista, la cui espressività possiamo inserire nella catalogazione ampia dell’universo espressionistico, riesce in qualche modo a “catturare” il portato immateriale dei protagonisti che a lui consegnano la fisionomia evidente e, attraverso di essa, il mondo segreto di cui è schermo. L’abilità del pittore è solo tecnica quando riesce a restituire mimeticamente questa fisonomia; è artistica quando, attraverso i tratti distintivi del volto o di o altre parti del corpo (importanti sono anche le posture), sa raccontarci i suoi sentimenti, le sue passioni, le sue virtù, i suoi difetti, le sue gioie, i suoi dolori. Cosa che perfettamente riesce a Claudio Calabrese, erede moderno di quell’antico potere (mana si chiama in antropologia culturale) che avevano i suoi antichissimi predecessori paleolitici, artisti ma anche maghi e sacerdoti.

In foto: Armando Ginesi/ritratto di Claudio Calabrese