Attacco alla Libia?

Dal 13 novembre 2015 l’Europa non è più la stessa, impaurita e ancora incredula. Da quella serata maledetta l’escalation è proseguita: arresti a raffica in mezza Europa, bombardamenti francesi, turchi e russi ai ferri corti. Oltre a ciò, le armate di Boko Haram in direzione Libia. Se ne è parlato poco, anzi pochissimo ma in questo mese l’Is ha rimpinguato le proprie fila in Libia, partendo da Sirte ed arrivando alle porte di Tripoli. Molti non lo sanno, i media non lo dicono, ma in Libia i nostri militari sono già presenti dal 2011, schierati a difesa degli impianti energetici dell’Eni. Ad oggi non hanno sparato un colpo, durerà? Nel dettaglio e detto chiaramente, l’Is ha in atto una tripla strategia: assicurarsi altre risorse energetiche ed aumentare gli effettivi del proprio esercito, aumentare lo show mediatico per arruolare nuovi soldati pronti a combattere. Mentre l’Europa gioca sulle parole, esorcizzando la guerra in corso, lo stato islamico si muove come una nazione strategicamente con le idee chiare, anzi chiarissime. Giocando sulle divisioni occidentali, ad Aleppo hanno capito come agire: consolidare il potere in Iraq e Siria avendo le spalle coperte (dalla Turchia?), stringere affari ed accordi commerciali più o meno alla luce del sole con Qatar e Arabia Saudita (che si armano grazie agli occidentali, inutile negarlo), vendere petrolio al mercato nero. La testa di ponte per un attacco all’ Europa (con l’Italia ad un tiro di schioppo) militarmente parlando è la Libia. Si presenta una situazione analoga al 1942, quando le armate inglesi dall’Egitto scompigliarono le truppe dell’Asse, portano lo slancio fino alla Sicilia (nel 1943). Attualmente in Libia non vi è però nessun fronte, l’unico confine il Mar Mediterraneo, ove la nostra marina militare è sotto pressione per pattugliamenti e raccolta di naufraghi. Spesso le nostre navi sono dotate d’armamento minimo (volutamente, visto che si occupano di soccorso marittimo), non navigano in formazione e si ritrovano isolate nelle operazioni di soccorso. Facili futuri bersagli? Le nostre portaerei (siamo gli unici insieme ad Usa e Regno Unito ad averne due attive…) possono dare protezione, limitata in realtà, gli F-35 adatti alla causa sono ancora in costruzione e saranno operativi non prima del 2017. Il ritardo al programma (dovuto anche a beghe politiche) mette l’Italia in una condizione particolare: struttura militare modernizzata e molto performante (i reparti speciali sono tra i primi al mondo) ma mezzi ed armamenti non ancora consegnati. La Marina quindi deve lavorare con quel che attualmente ha, motivo per cui il nostro premier (a parole) non intende metter piede in Libia, ci vorrebbe uno sforzo industriale enorme ed anche costoso che forse andava pianificato per tempo. A tutto questo aggiungiamo che la nostra difesa aerea dinamica è complessa, i nostri piloti (causa accordi Nato) devono occuparsi anche dei Balcani, di parte della Grecia e del nord Europa. In Sicilia sono comunque attive difese Nato anti missile ed Eurofighter armati pronti al decollo in caso d’eventuali attacchi da sud. A quel punto da Taranto sarebbero disponibili le nuovissime navi lancia missili. L’ammodernamento della flotta (iniziato con Prodi e concluso con Berlusconi) ci ha messi in una situazione più tranquilla, contando che i partner mediterranei sono pressoché inefficienti. Analizziamo. La Francia conta su di noi per coprirsi le spalle, inoltre la sua unica portaerei nucleare necessita di appoggio continuo, mezza flotta francese è utilizzata a protezione. La Spagna e la Grecia non hanno flotte di livello, inoltre il carburante costa e le obsolete navi greche e spagnole sono perennemente all’ancora, attive solo flottiglie leggere da ricognizione. Marocco e Tunisia non pervenute, non hanno la forza per gestire certe situazioni ed il naviglio obsoleto non aiuta. L’Italia quindi attualmente si trova il peso del Mediterraneo Occidentale sulle spalle, operazioni di soccorso comprese, le navi non italiane impegnate in operazione di recupero naufraghi si contano sulle dita di una mano. Torniamo sul suolo libico. L’Is sta avanzando nell’est della Libia minacciando Harawa, Nufaliya e Bin Jawad. L’obiettivo del Califfato è l’area di Ajdabiya, la porta verso i campi della mezzaluna petrolifera, a metà strada tra Bengasi e Sirte. Is sta trasportando armi pesanti e veicoli blindati (fonti locali) e soldati in nero pattugliano armati le strade principali, accompagnati da “controllori religiosi e politici”. Le risorse energetiche del Paese sono strategiche per il Califfo, proprio come nel nord dell’Iraq, dove ne utilizzano i proventi vendendoli al mercato nero per autofinanziarsi. La conquista di queste aree farebbe compiere un salto di qualità nella sua strategia. Secondo gli Usa Sirte diventerebbe la nuova base logistica dello stato islamico, il tutto a pochi chilometri dalle nostre coste. I miliziani dell’Is si trovano già alle porte di Ajdabiya. Le forze di Khalifa Haftar, alleate al governo di Tobruk, stanno cercando d’ impedirne l’avanzata con una serie di raid aerei, ma la situazione rimane gravissima. Lungo la strada litoranea che porta ai checkpoint di confine passano la maggior parte delle operazioni militari dei soldati neri: tra queste l’attacco al museo del Bardo o la sanguinaria strage di turisti sulla spiaggia di Sousse. Proprio per bloccare il traffico di uomini e di armi, la Tunisia ha chiuso la frontiera ma i mezzi per farlo sono inadeguati, la chiusura è più simbolica che concreta. A Sabratha, invece, la situazione sembra (per il momento) più tranquilla, anche se poco più a est ci sono intere aree al’Is. Qui, lo scorso marzo, è arrivato un contingente del Comando subacqueo incursori (Comsubin), partito dalla base del Varignano (La Spezia) a bordo della nave San Giorgio. L’obiettivo iniziale era di stazionare in corrispondenza dell’impianto di Melita, adesso invece sembra stiano lavorando a una prima bozza di piano per intervenire militarmente. Il sottosegretario alla Difesa ( Domenico Rossi) si è affrettato a smentire, ma il suo intervento non ha convinto. La stessa Tunisia ha più volte chiesto all’Italia collaborazione militare e logicistica, il nostro paese ha sempre risposto vagamente. Ancora una volta non riusciamo a crearci una agenda di politica mediterranea, non siamo capaci (per paure e dibattiti interni) a fare da baricentro per quei paesi come Marocco, Algeria o Tunisia che non possono essere lasciati soli e che non vedono nell’Italia quello che invece vedono in Francia, Usa e Regno Unito. In queste situazione sarebbe il caso di prenderci le nostre responsabilità geopolitiche, fare quadrato ed anteporre (per una volta) i nostri interessi nazionali alle provinciali e sterili polemiche politiche, figlie d’ideologie che in Italia non si fila più nessuno.

 

Marco P.

Giornalista pubblicista, originario di Bolzano si occupa di economia, esteri, politica locale e nazionale

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