NIGERIA, IL FUOCO DELLE DIVISIONI

La Nigeria non è la Crimea e gli occhi degli osservatori su questo straccio bruciato d’Africa sono di meno. Eppure qui le divisioni sono più profonde della nazionalità, più drammatiche dell’etnia, più mortali di un referendum. Trovano, però, meno spazio mediatico e di cento morti carbonizzati volontariamente nel sonno rimane solo la notizia senza il pensiero: un barlume consumato veloce come una fiamma.
Eppure ci troviamo al cospetto di una carneficina quasi senza precedenti per modalità e numero di vittime. In piena notte, una quarantina di uomini armati con pistole, fucili, benzina e machete ha assalito nel sonno i villaggi mutilando, facendo a pezzi e uccidendo chi ha trovato un incubo fuori dal sogno. Non paghi hanno dato fuoco alle capanne per essere sicuri di non lasciare nulla di intentato. Una trappola d’inferno per intere famiglie intrappolate all’interno. Superfluo dire che le urla dei bambini e delle donne si sono mischiate a quelle dei padri senza intenerire nessuno. Bilancio: almeno cento morti e quell’”almeno” è un altro fendente. D’altronde la vicenda non è una novità, ma solo l’ultimo capitolo del conflitto interno allo Stato di Kaduna, terra di coesistenza e non convivenza tra cristiani e musulmani. C’è, insomma, una matassa di rancori religiosi, etnici ed esistenziali che stringe nel sangue esplodendo nella persecuzione cristiana un secondo dopo l’elezione del cristiano Goodluck Jonathan alle presidenziali.
I villagi colpiti dal massacro sono quelli di Angwan Gata, Angwan Sankwai e Chensyi, tutti nel distretto di Kaura e tutti, ovviamente, di chiarissima maggioranza cristiana. Il capo della polizia di Kaduna, Aminu Lawan ha stilato un rapporto che sembra un bollettino dal fronte. “Gli assalitori hanno rubato cibo e mangime per gli animali dando anche fuoco ai granai. Si sono lasciati dietro alle spalle tre interi villaggi rasi al suolo con almeno 100 cadaveri, 50 dei quali solo nel villaggio di Chenshyi. Molti sono scappati nella boscaglia terrorizzati e non vogliono tornare a casa”. Duemila persone, ma queste sono fonti ufficiose, paiono essere scampate al massacro trovando riparo in una scuola del vicino villaggio di Gwandong. Nessuna indicazione, da parte degli agenti, sulle responsabilità anche se in molti indirizzano i propri occhi sui pastori di etnia Fulani o Haussa, islamici. Sullo sfondo anche una mera questione di suddivisione dei terreni da pascolo. Il bilancio complessivo delle violenze dell’elezione di Goodluck Jonathan parla di 400 morti ed è chiaro che per entità l’ultimo episodio sia drammaticamente eclatante anche per questa vera e propria guerra che taglia il Paese delle Aquile. E’ una convivenza che non nasce, l’orlo del baratro della non comprensione. Prendiamoci più tempo del fuoco di un fiammifero per leggere queste realtà perché sono lontane, ma sono anche la faccia cattiva che dobbiamo riconoscere al primo ghigno.

Alan Conti

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