Categories: Cultura e società

Il dibattito sulle tecnologie digitali

di Alessandro Efrem Colombi

COSA FARE PER LA SCUOLA CHE CAMBIA?

 

 

Il docente di tecnologie dell’educazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione della Lub di Bolzano riprende il dibattito sulla adozione delle tecnologie digitali nella scuola Cosa fare per la scuola che cambia?

Si potrebbe cominciare dal porsi domande intelligenti! Una di queste: Cosa sa l’italiano medio di Internet e della logica ipertestuale che ha fatto del Web la più grossa rivoluzione culturale dai tempi di Gutenberg?

 

 

 

Alcuni giorni fa, grazie a una “lettera aperta” pubblicata sulle pagine di uno dei principali quotidiani nazionali, il dibattito su adozione e utilizzo di tecnologie digitali nella scuola ha ricevuto una forte accelerazione e un rapido ritorno ad un interesse diffuso per le sorti della scuola contemporanea e dei suoi più giovani frequentatori. A fronte del promesso massiccio diffondersi nelle scuole primarie di libri digitali e dei tablet necessari a fruirne, era piuttosto facile aspettarsi che le classiche polarizzazioni all’italiana avessero a riproporsi e che avremmo dovuto assistere al tradizionale sfoggio di slogan, minacce e incomprensioni. Ottime per dimenticare tutto nel giro di alcuni giorni, se non addirittura ore. Perciò, ad una settimana dall’articolo in questione e dalla risposta ufficiale del sottosegretario all’istruzione, siamo ad accennare ad alcune variabili che meriterebbero indubbiamente più attenzione di quanta riservata loro sino ad oggi, e che una volta affrontate seriamente potrebbero indicarci numerosi ambiti di miglioramento, discussione, confronto, che non la “semplice” scelta legata al fatto di adottare, o meno, computer e risorse digitali nella scuola primaria e/o nell’ultimo anno della scuola dell’infanzia. Il discorso sugli “schermi” abbozzato e troppo rapidamente concluso anche nella lettera di risposta del Sottosegretario all’Istruzione, così come quello sulle modalità di relazione con la tecnologia proposte dai singoli contesti familiari, o il consumo pro capite d’immagini, spot, videogiochi, messaggistica di vario tipo, sono sicuramente questioni fondamentali e che la lettera aperta tralasciava in modo a mio parere inspiegabile e ancor prima pericoloso per i rischi complessivi di tale esposizione se non compresa, osservata, contenuta e gestita rispetto ai tempi di vita dell’infanzia contemporanea. La cultura tecnologica di ogni individuo, famiglia, persino quella di un intero Paese, non hanno infatti nulla a che vedere con quanto il mercato propone (o la legge eventualmente “impone”), o perlomeno non dovrebbero, e questo vale ancor prima e soprattutto per la scuola e l’ambito educativo in generale. Siccome per qualcuno il concetto di “cultura tecnologica” potrebbe risultare oscuro, mentre per altri rappresenta quasi un ossimoro, farò bene a ricordare che per il sottoscritto il concetto attiene molto più a questioni cognitive che informatiche e che nel novero delle citazioni che si potrebbero fare a riguardo basterà dire che per lo stesso Einstein, ma non solo, le domande erano la prima e più potente di tutte le tecnologie. Cosa sa l’italiano medio di Internet, della logica ipertestuale che ha fatto del Web la più grossa rivoluzione culturale dai tempi di Gutenberg? Che opinione ha maturato sul proprio modello di utilizzo di Facebook o del fatto che persino il Pontefice abbia un proprio account su Twitter? Il problema maggiore, per un nutrito manipolo di studiosi e ricercatori di tutto il mondo oltre che per il sottoscritto, è che purtroppo queste domande sono “premature”, e lo sono di almeno qualche decade, perché l’italiano e l’italiana media (supposto che possano esistere in quanto categorie sociologiche) si sono poste ben altre questioni. Di conseguenza, e molto spesso nella maggior parte dei casi, i soggetti chiamati a compiere scelte o anche semplicemente ad esporre opinioni su scelte quali quelle indicate dagli articoli (cosa penso del fatto che mio figlio dovrà studiare esclusivamente tramite supporti digitali?) non hanno maturato gli strumenti necessari a porsi le successive. In estrema sintesi, potremmo dire che non serve quasi a nulla chiedersi se aggiungere o meno un nuovo schermo nella vita dei bambini (in classe, a casa) e quali rischi tale opzione introduca, se prima non ci si interroga almeno un minimo sul ruolo, ubicazione, modello d’uso dello schermo televisivo, di tutti gli “altri” schermi e di tutto quello che ci propone e non smette mai di proporre a noi e ai nostri figli, nipoti, studenti. Dato che non abbiamo mai discusso seriamente dei modelli culturali legati alla televisione e alla sua fruizione in ambito familiare, e meno che mai abbiamo provato a farlo a scuola e/o rispetto alle importanti derive educative (in senso positivo, e non) che la televisione e i media in generale introducono. Nel frattempo, però, il discorso sembra già decaduto quanto a valore prospettico e anche soltanto quale argomento d’interesse generale e cui prestare la dovuta attenzione nel dibattito sul futuro della scuola e dei modelli di trasmissione e produzione del sapere, non tanto per le questioni di obsolescenza mediatica cui si faceva rapidamente cenno, ma perché abbiamo scoperto che la questione, almeno per ora e come quasi sempre accade nel Belpaese, è semplicemente rimandata

 

 

Alessandro Efrem Colombi

 

 

 

 

 

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