Le immagini delle maestre che maltrattano i bambini in una scuola dell’infanzia, in rete diventano subito virali. Si diffondono rapidamente e, una volta di più, mettono in evidenza come la violenza sui minori sia ancora una vergognosa piaga sociale. Allora oltre all’indignazione si riaccende il dibattito sul come fermare questi comportamenti e ritorna l’idea delle telecamere a scuola.
Personalmente non la condivido anche se concordo sul fatto che possa servire come deterrente.
Credo invece che rappresenti il segnale di un problema grave tra i tanti da affrontare a scuola, ma che anche sia il modo per ammettere una sorta di fallimento del sistema formativo. Le telecamere in classe se ci permettono di controllare come si comportano gli insegnanti, implicitamente ci dicono che nelle scuole vi sono persone disturbate, violente e pericolose per i bambini, da individuare e sospendere dall’attività, quando però hanno già combinato guai.
Inoltre indicano il fallimento di chi fa la difficile professione dell’insegnante, in quanto mestiere che richiede soprattutto equilibrio psichico e non solo competenze didattiche. Ritenere necessario l’uso delle telecamere in classe vuol dire ammettere che come educatore io ho bisogno di strumenti di controllo esterno perché sono carenti i freni interiori per i miei impulsi aggressivi.
Se guardiamo alcuni dati statistici, possiamo capire che il maltrattamento a scuola è fenomeno ancora troppo frequente e colpisce un numero elevato di minori. Un’indagine dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza svolta su un campione di 8 mila adolescenti tra i 14 e i 19 nell’anno scolastico 2016/17, ha messo in evidenza un dato drammatico: il 20% di loro ricorda maltrattamenti e insulti subiti nei primi anni di scuola da parte degli insegnanti. Il 7% dice di essere stato picchiato o strattonato oltreché offeso pubblicamente e il 10% ricorda di aver dovuto cambiare scuola per fuggire dalla violenza di alcuni educatori.
Ci viene così da pensare che i docenti che hanno queste condotte, siano insegnanti incapaci di fare il difficile mestiere dei formatori. Li giudichiamo impreparati da un punto di vista professionale perché non sono in grado di occuparsi dei loro allievi con amore e rispetto. Questo può essere vero, ma solo in parte, perché una cosa è la preparazione didattica e un’altra la capacità di gestire la relazione, governare se stessi e il proprio universo affettivo ed emotivo. Per la didattica si viene preparati frequentando, oggi, cinque anni di università, ma per la conoscenza di se stessi e la gestione delle personali dinamiche interne, non vi sono percorsi formativi pensati per gli educatori.
Eppure diceva Jung: “I bambini vengono educati da quello che gli adulti sono e non dai loro discorsi”. Intendeva dire che la relazione insegnante-bambino non si gestisce solo con la testa né con le competenze cognitive acquisite, ma dipende esclusivamente dalla elaborazione che l’adulto è riuscito a fare della sua storia e delle personali esperienze infantili.
A giudicare dalla frequenza con cui le condotte violente si registrano tra i banchi scolastici, è opportuno pensare alla formazione emotiva dei docenti ed è urgente immaginare di formarli alla conoscenza di se stessi e alla gestione delle proprie emozioni. Dare spazio a questi aspetti formativi da inserire nei percorsi universitari di chi andrà ad insegnare, consente di prevenire il dilagare dei comportamenti violenti. Ma il problema non si risolve ancora se non ci si preoccupa di verificare qual è il loro quotidiano carico emotivo, soprattutto quando si trovano a gestire classi numerose e sempre più complesse. Non li aiutiamo se non diamo loro strumenti utili alla gestione dello stress che alimenta difficoltà di autocontrollo e produce burnout e depressione.
Giuseppe Maiolo – Università di Trento – www.officina-benessere.it
In foto, Giuseppe Maiolo