In Italia si torna a parlare di giustizia, e lo si fa con una proposta di riforma che potrebbe cambiare profondamente il funzionamento della magistratura: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.
È un argomento che, a prima vista, può sembrare tecnico, riservato agli addetti ai lavori, ma in realtà tocca il cuore del nostro sistema democratico perché riguarda la garanzia dei diritti dei cittadini e l’equilibrio tra i poteri dello Stato.
Oggi, chi entra in magistratura può scegliere se fare il giudice o il pubblico ministero, e nel corso della carriera può anche passare da una funzione all’altra. Entrambi i ruoli passano attraverso lo stesso concorso, la stessa formazione iniziale e lo stesso organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura. Questo modello, nato con l’intento di tutelare l’indipendenza della magistratura, ha però sollevato nel tempo dubbi e critiche.
C’è chi teme che questa vicinanza tra chi accusa e chi giudica possa generare una sorta di “corpo unico”, in cui le due funzioni finiscono per assomigliarsi troppo, con il rischio di compromettere la doverosa imparzialità.
La riforma proposta mira a superare questa ambiguità, creando due carriere distinte: una per i giudici, che devono essere terzi e imparziali, e una per i pubblici ministeri, che rappresentano l’accusa. Due percorsi separati, con propri concorsi, formazione e organi di autogoverno. L’idea è quella di rendere più chiaro il ruolo di ciascuno, evitando sovrapposizioni e possibili conflitti di interesse. Questa distinzione non è una novità assoluta, infatti in molti Paesi europei è già realtà.
In Francia, ad esempio, le carriere sono separate e i pubblici ministeri rispondono al Ministero della Giustizia. In Germania, il pubblico ministero è parte dell’esecutivo, mentre i giudici godono di piena indipendenza. In Spagna, Regno Unito, Belgio e Paesi Bassi la separazione è netta, e il sistema giudiziario si fonda su un equilibrio tra le parti.
L’Italia, in questo senso, rappresenta un’eccezione. Naturalmente, non tutti sono d’accordo con questa riforma.
Alcuni magistrati e giuristi temono che separare le carriere possa allontanare il pubblico ministero dalla giurisdizione, rendendolo più vulnerabile a pressioni esterne, in particolare da parte del potere politico. Secondo questa visione, il rischio è che il pubblico ministero perda la sua autonomia e diventi una figura più burocratica, meno incisiva, più facilmente controllabile.
C’è anche chi sottolinea che i passaggi di funzione tra giudice e pubblico ministero, già oggi molto rari, non rappresentano un problema concreto, e che la riforma potrebbe introdurre nuove fragilità invece di risolvere quelle esistenti.
In definitiva, il dibattito sulla separazione delle carriere non è solo una questione di organizzazione interna della magistratura. È una riflessione profonda sul ruolo della giustizia nella società, sulla garanzia dell’equilibrio tra i poteri, su come tutelare i diritti dei cittadini.
Il referendum che si terrà nei prossimi mesi sarà un momento importante per decidere quale direzione prendere. E sarà fondamentale che il confronto sia aperto, informato e rispettoso delle diverse posizioni, perché dalla giustizia dipende la qualità della nostra democrazia.