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UN RE SFORTUNATO MUORE AD ARCO

20 Febbraio 2022

UN RE SFORTUNATO MUORE AD ARCO

“Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe”

Verso la fine dell’Ottocento, al tramonto della Belle Époque, l’aristocrazia europea amava ritrovarsi spesso nella cittadina termale dell’Alto Garda. In inverno, in cerca di un clima mite, soggiornava qui anche Francesco II di Borbone, l’ultimo Re delle Due Sicilie in esilio. E fu proprio ad Arco, cittadina che allora faceva parte dell’Impero Asburgico, che alla fine del 1894 il sovrano morì a soli 58 anni. Attraverso un documento fotografico unico e straordinario della cerimonia funebre, ripercorriamo le vicende di questo sovrano dimenticato. 

Circondato da candelabri e da tante corone di fiori, la salma del Re in abito azzurro chiaro era stata composta in una semplice bara esposta al pubblico. Per due giorni una fila incessante di persone di ogni classe sociale sfilò davanti al feretro impartendo la propria benedizione al grande scomparso. 
Era il 27 dicembre del 1894 e ad Arco era morto Francesco II, l’ultimo Re delle Due Sicilie in esilio. Qui, nella cittadina vicina al Lago di Garda, la sua salma sarebbe rimasta tumulata per più di vent’anni, fin dopo la Prima Guerra Mondiale. Un lungo periodo del quale ben poco è rimasto nella memoria della nostra gente. In Trentino Alto Adige, infatti, quasi nessuno sa che ad Arco morì un re importante, uno dei più sfortunati sovrani della storia europea.
Nato da Ferdinando II di Borbone e dalla prima moglie Maria Cristina di Savoia (figlia di re Vittorio Emanuele I), Francesco salì al trono appena ventitreenne, il 22 maggio 1859. Di carattere piuttosto timido e buono, lo stesso anno Francesco sposò la duchessa Maria Sofia di Baviera – sorella dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, la famosa Sissi.

In un freddo paesaggio invernale, il corteo funebre giunge a Trento percorrendo la strada che fiancheggia il Castello del Buonconsiglio

Francesco, giovane e inesperto, era un regnante sui generis. La sua filosofia di vita, del tutto contrapposta alla cultura del potere e della guerra, aveva indotto i suoi stessi sudditi a riferirsi a lui affabilmente con il nomignolo di “Franceschiello”. Un soprannome innocente di cui dopo la sua sconfitta si impossessarono le cronache post-unitarie facendone discendere un’ingiusta figura superficiale, debole e patetica, senza che nessuno studioso intervenisse mai a tutela della sua memoria; un’immagine ben più potente di ogni critico giudizio politico e storico, veicolata subdolamente fino ai giorni nostri.
In realtà, Francesco II fu un uomo sensibile, molto devoto, un sovrano onesto, ma oltremodo, perseguitato dalla sfortuna. I fatti della vita probabilmente avevano influito sul suo carattere: la morte della madre, pochi giorni dopo il parto, quella prematura del padre alla vigilia delle sue nozze, poi quella della figlia, dopo soli tre mesi dalla nascita, e infine quell’unico anno di governo nel corso del quale vide crollare il regno stesso insieme alla storica dinastia dei Borbone.
Dietro a tale crollo, tuttavia, non vi fu solo la sua inesperienza. La storia dell’epoca non lo ammise mai, tuttavia determinante si dimostrò una specie di complotto internazionale ordito più per interessi di Stato che non per vere logiche unitarie. Già dagli anni Cinquanta dell’800, Cavour e Vittorio Emanuele II avevano preparato, con la complicità di Napoleone III e della Gran Bretagna, l’invasione del Regno delle Due Sicilie, alleato, peraltro, proprio del Regno dei Savoia. Per questo motivo, pare che Garibaldi per la spedizione dei Mille avesse ricevuto uomini, navi, ma soprattutto armi dal Regno di Sardegna, mentre i soldi li ricevette in grande abbondanza dalla Gran Bretagna e dalla massoneria internazionale. Soldi che servirono per corrompere i più alti ufficiali borbonici, i quali fin dallo sbarco in Sicilia non combatterono mai seriamente i garibaldini, consegnando vilmente interi reggimenti e fortezze all’invasore senza sparare un solo colpo.

Arco, 1892. Francesco II (a sinistra) in compagnia dell’Arciduca Alberto

Così, mentre Vittorio Emanuele II giurava amicizia al cugino re Francesco e deprecava pubblicamente quanto stava avvenendo, in contemporanea lo stesso Savoia sosteneva in gran segreto il suo ministro Cavour che dava ordine all’esercito di scendere fino a Napoli per impossessarsi del Regno delle Due Sicilie. Del resto si sa come spesso sono andate le questioni militari in Italia. Così, dopo la perdita della Sicilia e della Calabria, di fronte all’avvicinarsi di Garibaldi, il re dovette fuggire.

Da lì in avanti, senza più fare ritorno nell’amata Napoli, Francesco II andò in esilio prima a Roma, ospite di Pio IX, poi a Parigi e a Vienna dove condusse una vita molto ritirata. Risiedette infine, con la moglie Maria Sofia, a Possenhofen in Germania, sul lago di Starnberg. Visse privatamente, senza i grandi mezzi economici appannaggio dei re, perché Garibaldi aveva confiscato tutti i beni dei Borbone. Vero è che dopo l’unificazione del Regno d’Italia il Governo ne propose la restituzione a Francesco II, ma solo a patto che lui rinunciasse a ogni pretesa sul trono del Regno delle Due Sicilie, cosa che egli non accettò mai, rispondendo sdegnato: “Il mio onore non è in vendita“.

Da quegli anni in poi, come detto, le vicende personali di “Franceschiello” incroceranno più volte la città di Arco, località che già dalla seconda metà dell’Ottocento era diventata residenza invernale degli Asburgo, casa regnante da sempre amica dei Borbone. È qui che verso il 1870, per iniziativa di una borghesia imprenditoriale coraggiosa e grazie all’appoggio dell’Arciduca Alberto, cugino dell’Imperatore Francesco Giuseppe, che si intuì che lo sviluppo economico della città poteva dipendere proprio dal suo clima favorevole. Nacque così il “luogo di Cura” (il “Kurort”, in tedesco) di cui ancora oggi la cittadina dell’Alto Garda conserva l’antica tradizione. È questa, infatti, l’epoca in cui Arco viene considerata la “riviera dell’Impero Austro-ungarico”, quella in cui da anonimo paese del Tirolo meridionale, diventa appunto città Asburgica.
In quegli anni, si costruirono ville, luoghi di incontro, giardini pubblici, hotel, il Casinò, oltre a case di cura per le persone affette dal “mal sottile” – la tubercolosi – malattia molto diffusa a quell’epoca. Francesco II, invece, soffriva da tempo di diabete e ad Arco veniva spesso in incognito per cercare sollievo nelle cure termali. Il re era qui anche verso la fine di dicembre del 1894, alloggiato da alcuni giorni in un appartamento all’Hotel Arco, quando per insorte complicazioni, il 27 di quel mese morì. Al momento del trapasso gli erano accanto la moglie Regina Maria Sofia di Wittelsbach che lo aveva raggiunto per il Natale, il fratello Alfonso, Conte di Caserta, l’Arciduchessa Maria e gli Arciduchi Alberto e Ranieri.

Il corteo entra nel centro di Trento passando per il celebre “Cantone”, attualmente fra Via Suffragio e Via S. Marco

L’ultima annotazione che Francesco II scrisse sul suo diario è molto breve: “Lavoro un poco, ma mi fatico.” Subito dopo – raccontano le cronache dell’epoca – si mise a letto e nel giro di poche ore le sue condizioni si aggravarono. Più tardi venne chiamato l’arciprete, che dopo aver celebrato la Messa nella stanza, gli impose l’unzione degli infermi. Quell’ultima frase del Re, scritta nel diario che redigeva ogni giorno, è del 24 dicembre, la vigilia di Natale. Negli anni precedenti, in quelle stesse pagine Francesco aveva riportato tutta la sua amarezza per il destino che lo aveva costretto per 34 anni lontano dalla sua Patria che ricordava sempre con commozione, ma soprattutto per la sorte del suo popolo, schiacciato dal malgoverno e dalla repressione armata del nuovo re. “Ringrazio – lasciò scritto nel suo testamento – tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono quelli che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nociuto. Che l’oblio copra per sempre gli errori di tutti e che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare.”
Il Re di Napoli – riportò più tardi mons. Giuseppe Chini, Arciprete di Arco – è morto in un paese delle Alpi nel cuor dell’inverno, all’ultimo confine d’Italia, quasi da tutti abbandonato, da tutti ignorato, mentre i suoi nemici stanno nelle gloriose sue capitali di Napoli e Palermo e vi danno quegli esempi di una nuova morale.“

Il feretro, posto su di un affusto di cannone e scortato da soldati austriaci, si ferma davanti alla Chiesa di San Francesco Saverio, nell’attuale Via Roma, a Trento

Solo il giorno successivo – secondo il Chini – gli abitanti del posto seppero che il “signor Fabiani”, come si faceva chiamare quell’uomo distinto che ogni giorno assisteva alla messa presso la Collegiata, recitava il rosario e si metteva compostamente in fila con i contadini del luogo per ricevere la comunione, altri non era che Francesco II di Borbone, il deposto Re delle Due Sicilie. Un gentiluomo riservato che gli abitanti di quella cittadina erano soliti incontrare per strada o vedevano fare colazione al bar del Casinò, dedicandosi alla lettura dei giornali. L’arciprete, testimone del tempo, così ancora lo descrisse: “Dal contegno tanto riservato, che in Arco non si faceva neppure rimarcare, tranne che la sua frequenza e divozione alla Chiesa: quasi suo unico compagno era l’Arciduca Alberto, e qualche volta suo cognato l’Arciduca Carlo Salvatore. Le sue ultime giornate le aveva trascorse compiendo passeggiate nei dintorni della cittadina, scambiando qualche battuta con la gente del luogo, che ricordava la sua svelta camminatura lungo il viale delle Magnolie, per giungere puntuale alle sacre funzioni.”
Alcuni giorni dopo, sulla prima pagina de “Il Mattino” di Napoli la grande scrittrice e giornalista Matilde Serao scrisse in ricordo di Francesco II un commosso articolo che concludeva con queste parole: “Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli piegò la sua testa assumendo un carattere di muto eroismo: galantuomo come uomo e gentiluomo come principe.
Fu lo stesso Imperatore d’Austria, con il cugino Arciduca Alberto, a organizzare i funerali solenni che si svolsero il 3 gennaio 1895. Tutte le corti europee presero il lutto, eccezion fatta per quella dei Savoia.
Quel giorno il corteo mosse alle 10, dopo che il Principe Vescovo di Trento aveva impartito all’ex sovrano la sua benedizione. Numerosa la presenza di teste coronate, fra cui i rappresentanti degli Imperi d’Austria e di Germania, il Duca di Parma e il Granduca di Toscana. Le cronache del tempo parlarono di ben 10 mila persone che fecero ala al corteo scortato da centinaia di soldati e da alcune bande militari, mentre i rintocchi di tutte le campane dei paesi circostanti e le salve di cannone sul Monte Brione di Riva del Garda davano al re l’ultimo saluto. Con una cerimonia privata, la salma fu quindi collocata all’interno della Collegiata alla presenza dei soli familiari e di pochi altri.
È da dire, però, che Francesco II aveva predisposto nel suo testamento che le sue spoglie fossero tumulate nella chiesa del Santo Spirito dei Napoletani a Roma e dunque quella collocazione ad Arco doveva essere considerata del tutto provvisoria. In realtà non fu così. Probabilmente questioni diplomatiche con il Regno d’Italia impedirono negli anni successivi che venissero compiute le ultime volontà del sovrano, mentre qualche anno dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale fra Italia e Austria fece il resto. All’avvio delle ostilità, Arco, infatti, venne a trovarsi sulla linea del fronte per cui fu addirittura l’Imperatrice d’Austria, Zita di Borbone-Parma (moglie dell’Imperatore Carlo, succeduto a Francesco Giuseppe nel 1916), a predisporre la traslazione del feretro nel timore che i bombardamenti sulla città potessero colpire anche la tomba dell’illustre sovrano.
All’alba del 6 febbraio 1917, la salma di Francesco II fu così trasportata con un mezzo militare fino a Trento, da dove si snodò il vero e proprio corteo funebre per le vie del centro  con tutti gli onori destinati a un re. Tutta la città era parata a lutto. Una grande folla si assiepava ai lati della strada, mentre il Capitolo della Cattedrale, i dignitari di corte e le autorità civili accompagnavano mestamente il feretro, scene, queste, immortalate dalle inedite fotografie riportate in queste pagine. Il corteo raggiunse poi la chiesa di S. Francesco Saverio, dove le spoglie de re avrebbero trovato una nuova, seppur ancora provvisoria, collocazione.
Riferito del “come” il re di Napoli morì in Trentino, rimane ancora da capire il perché del lungo oblio di quel re straniero passato e morto in questa terra senza lasciare qui alcuna traccia.

I soldati si apprestano a trasportare il feretro all’interno della chiesa dove attendono i dignitari di Corte

In effetti, dopo la Prima Guerra Mondiale e dopo la sconfitta dell’Austria, la cultura dei vincitori impose che tutto ciò che aveva avuto a che fare con l’Impero Austro-ungarico doveva essere drasticamente cancellato. In particolare con l’avvento del Fascismo, dopo gli anni Venti si iniziò una sistematica e selvaggia opera di rimozione di tutto quanto aveva avuto a che fare con l’Austria e con il casato degli Asburgo, da sempre fedele alleato dei Borboni. In sostanza, niente e nessuno doveva dire o riportare per iscritto ciò che realmente era successo prima dell’annessione. È facile dunque intuire, alla luce di ciò, i motivi per cui lo sfortunato Re di Napoli pure qui, in questa lontana terra di confine, continuò a combattere contro il suo destino avverso, rimanendo nuovamente sconfitto. Stavolta, anche dopo morto. Annientato e condannato all’oblio per più di un secolo, come del resto capitò in Trentino Alto Adige a molti altri ex sudditi dell’Impero Austro-ungarico.
La regina Maria Sofia, l’amata consorte, gli sopravvisse ancora per 31 anni. Morì, infatti, all’età di 83 anni, il 19 gennaio 1925 a Monaco di Baviera, dove venne tumulata. Fu però solo nel 1938, per iniziativa di alcuni nostalgici della vecchia monarchia partenopea che si riuscì a dare corso alle ultime volontà dei due sovrani. Le spoglie della regina furono esumate e poste su di un treno alla volta dell’Italia. A Trento, il treno si fermò e senza alcuna cerimonia particolare fu caricato anche il sacello del marito. Poi il convoglio proseguì il suo mesto viaggio fino a Roma, dove i resti dei reali furono tumulati insieme a quelli dell’unica figlioletta, Maria Cristina Pia, nella  chiesa del Santo Spirito dei Napoletani.
Da qui, infine, furono traslate di nuovo il 10 aprile 1984 e trasportate finalmente a Napoli, nella Basilica di Santa Chiara, il Pantheon dei Borbone, dove ancora oggi riposano.