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ESCLUSIVO. Il caso del piano pandemico. Il ricercatore Francesco Zambon: “Vi spiego perché l’Oms deve cambiare”

13 Maggio 2021

ESCLUSIVO. Il caso del piano pandemico. Il ricercatore Francesco Zambon: “Vi spiego perché l’Oms deve cambiare”

Esce oggi “Il pesce piccolo. Una storia di virus e segreti”, edito da Feltrinelli. L’autore è il medico e ricercatore trevigiano Francesco Zambon, ex funzionario dell’Oms, coordinatore della gestione nazionale della pandemia di coronavirus, durante la prima ondata. Negli ultimi mesi è salito agli onori della cronaca per avere denunciato pubblicamente il mancato aggiornamento del piano pandemico italiano e, di conseguenza, responsabilità ed omissioni della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre che del Governo italiano. Sulla vicenda sta indagando da tempo la procura di Bergamo. Nel frattempo, nelle ultime ore è uscito, sorprendentemente, il rapporto dell’Independent Panel for Pandemic Preparedness and Response (il link ufficiale: https://theindependentpanel.org/expert-independent-panel-calls-for-urgent-reform-of-pandemic-prevention-and-response-systems/), commissionato dalla stessa Oms, secondo cui l’attuale regolamento sanitario internazionale (nato per tutelare il mondo dalle emergenze sanitarie) non era adeguato a proteggere le persone dalla Covid-19. Non solo: il rapporto rivela che, nel febbraio 2020, anziché prendere i provvedimenti più opportuni, numerosi Paesi “persero solo tempo” e l’Oms non si era imposta sufficientemente così da far comprendere la minaccia globale che si stava delineando.

Dottor Zambon, perché il Suo libro è uscito proprio oggi, 13 maggio?

“Si tratta di una data storica: il 13 maggio 2020 uscì l’unico rapporto indipendente, riguardante l’Italia, sulla gestione della pandemia. Non ne seguirono altri, per nessun Paese del mondo. Nel libro ripercorro l’intera vicenda, perciò ho chiesto all’editore di pubblicare la mia opera il 13. Purtroppo la vita di quel rapporto fu molto breve, inferiore alle ventiquattro ore. Maggio è anche il mese in cui si riunisce ogni anno l’assemblea mondiale della sanità. Quest’anno comincia il 24 maggio e si parlerà di pandemia. Abbiamo capito che non possiamo parlare di pandemia senza toccare il tema dell’indipendenza dell’Oms: è una cosa che riguarda la salute di tutti”.

Quali decisioni verranno prese?

“L’assemblea mondiale coinvolgerà tutti i ministri dei 194 Stati membri dell’Oms: in quella circostanza si deciderà l’agenda futura. Io desidero che prima dell’assemblea ci si ricordi di quel rapporto, che venne ritirato il 14 maggio 2020: il suo ritiro dimostra la mancanza di indipendenza dell’Oms. Le mie non sono speculazioni, ma evidenze. Personalmente non mi interessa porre l’attenzione sulle responsabilità politiche italiane, bensì su quelle sovranazionali. Deve essere chiaro a tutti che, in questo momento, non abbiamo un organismo internazionale indipendente”.

Il rapporto venne completato l’11 maggio e ritirato il 14, perché conteneva “errori”: chi e cosa Le contestarono?

“Il report era pronto per il lancio l’11 maggio, ma fu oggetto di contestazione da parte di Ranieri Guerra (direttore vicario dell’Oms, ndr) e di un’altra collega, che mi chiesero di apportare delle modifiche, poiché esso avrebbe potuto evidenziare le criticità della risposta italiana alla pandemia. Il piano pandemico del nostro Paese era infatti aggiornato al 2006. Il rapporto venne pubblicato il 13 e considerato subito una “bomba mediatica”, tant’è che il 14 mattina sparì. Ma ormai era tardi, in quanto ottenne 15 mila visualizzazioni in poche ore e alcuni giornalisti scrissero anche dei pezzi”.

Come reagirono i Suoi vertici?

“L’orientamento dell’Oms era quello di omettere tutto ciò che avrebbe potuto causare problemi e imbarazzo sia all’Organizzazione, sia al governo italiano. L’avere specificato, nel report, che il primo caso italiano di Covid venne diagnosticato grazie all’intuizione dell’anestesista dell’ospedale di Codogno, la quale decise di effettuare un tampone contro le linee guida del Governo e dell’Oms, diventava fonte di disagio. Non avrei dovuto sottolineare neppure gli aspetti della gestione regionale della pandemia: non si poteva dichiarare, ad esempio, che il Veneto stesse contenendo il problema meglio della Lombardia, in quanto più attrezzato sul piano territoriale. Il Covid va infatti combattuto sul territorio e non negli ospedali, che rischiano di collassare. Un organismo come l’Oms non dovrebbe occultare la verità, poiché il compito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è tutelare la salute dei cittadini, non salvaguardare interessi di parte”.

A un certo punto si è dimesso dall’Oms: quando e per quali ragioni?

“Mi sono dimesso il 31 marzo scorso, perché non avevo alternative. Mi hanno emarginato, condotto in un corridoio e accompagnato all’uscita. Ho ricevuto tantissime attestazioni di solidarietà da parte di cittadini italiani ed esteri, ma da pochissimi colleghi dell’Oms, in quanto temono ritorsioni. Eppure le cose sono ormai chiare e note a tutti, ma sembrerebbe non all’Oms”.

Partiamo dall’inizio. Febbraio 2020: Carnevale e l’Italia entrò nell’incubo Covid. Seguirono settimane di intenso lavoro, per Lei: ce le può raccontare?

“Il mio direttore europeo mi chiese di occupare il ruolo di coordinatore per la gestione italiana della pandemia. Non esisteva una “risposta” al Covid, pertanto ho dovuto inventare il lavoro da zero. Insieme al mio team abbiamo creato reti di anestesisti, infettivologi e organizzato quaranta seminari, per trattare le tematiche più importanti: dalla pronazione dei pazienti in terapia intensiva a come comunicare la morte ai familiari delle vittime. Abbiamo coinvolto, complessivamente, 1500 professionisti e preparato seminari con oltre 300 persone collegate per volta. Quando scoppiò la pandemia non c’erano evidenze scientifiche, perciò i medici avevano la necessità di confrontarsi e scambiarsi opinioni su qualsiasi cosa”.

L’Italia era al centro dell’attenzione, in quanto fu il primo Paese occidentale ad essere stato colpito dalla pandemia…

“Gli Stati esteri avevano fame di informazioni, tant’è che ricevetti numerosissime richieste da parte degli altri Paesi. L’Italia fu, per parecchio tempo, la Nazione più colpita al mondo e proprio per questo aveva un’enorme responsabilità nei confronti degli altri Stati. Documentare tutto era quindi fondamentale: il report conteneva le pratiche da adottare”.

Come si comportò quando si accorse che il piano pandemico italiano risaliva al 2006?

“A noi interessava prendere atto che non esisteva un piano aggiornato, invece capire “perché” non rientrava nelle nostre competenze. Il report non era tecnico, ma presentava uno stile e un linguaggio accessibili a quelli del cittadino comune”.

Perché?

“L’obiettivo del mio team consisteva nella sensibilizzazione della popolazione, al fine di renderla consapevole del problema a cui sarebbe andata incontro. Tuttavia, anche in questo caso abbiamo incontrato le resistenze dell’Oms, che non gradiva espressioni come “la gente è nel panico”. Come detto, il rapporto è rimasto online meno di ventiquattro ore, ma il documento si era già diffuso rapidamente via web: l’Oms non poteva ritirarlo fingendo che non fosse mai stato pubblicato”.

Normalmente dopo quanto tempo è necessario l’aggiornamento del piano pandemico?

“Il piano pandemico si aggiorna tutte le volte che l’Oms licenzia nuove linee guida o quando sopraggiungono delle pandemie. Prima del SARS-CoV-2 c’erano già stati altri eventi che avrebbero reso necessario il suo aggiornamento: mi riferisco alle infezioni del 2009, 2013, 2017 e 2018. Il piano pandemico va tenuto “vivo” anche a livello pratico: ciò spiega i contagi di coronavirus avvenuti tra il personale sanitario che, non essendo stato formato, non risultava in grado di gestire una pandemia del genere”.

Quali ripercussioni ha avuto il mancato aggiornamento del piano? Quali errori si sarebbero potuti prevenire?

“Con il senno di poi è facile rilevare tutti gli errori. Di sicuro avremmo potuto prospettare determinati scenari, affinando i calcoli sull’approvvigionamento di mascherine e respiratori. Saremmo stati in grado di fare delle simulazioni sui rischi, proprio come avviene per affrontare le situazioni d’emergenza sugli aerei, sulle navi da crociera o in occasione di terremoti”.

L’Oms ha annunciato la pandemia l’11 marzo 2020, sebbene avesse lanciato l’allarme il 30 gennaio dello stesso anno: perché?

“In realtà l’annuncio dell’11 marzo seguiva soltanto un criterio epidemiologico. La data che contava era quella del 30 gennaio: il ritardo parte da lì. L’Oms aveva ricevuto una prima notifica riguardante la trasmissione interumana del virus il 31 dicembre 2019, da parte di Taiwan, che però non fa parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Inspiegabilmente tale informazione venne resa nota, e riferita alla Cina, solo il 21 gennaio 2020, mentre il 30 gennaio fu lanciato ufficialmente l’allarme. E qui entrano in gioco le responsabilità di Oms e Cina. Perché fu ignorato l’avvertimento di Taiwan, Paese adiacente la Cina e che finora ha registrato, fra l’altro, soltanto dodici morti dall’inizio della pandemia? Taiwan è il Paese del mondo che ha risposto meglio al Covid e che aveva messo al corrente l’Oms della trasmissione interumana del virus, cioè del suo potenziale pandemico”.

Parliamo delle “giravolte” dell’Oms sulle mascherine, sui guanti, sul ruolo degli asintomatici: perché tutte queste contraddizioni?

“Quando si affronta un problema sconosciuto è inevitabile commettere errori. Le evidenze si acquisiscono con il tempo, perciò l’Oms diffonde le informazioni basandosi sulle conoscenze del momento. La sua responsabilità sta invece nel non voler riconoscere la mancanza di trasparenza”.

Da chi è finanziato l’Oms?

“Il budget dell’Oms è composto dai contributi erogati dai 194 Paesi membri, ma anche dalle contribuzioni aggiuntive e volontarie sia dei singoli Stati, sia di finanziatori privati, quali ad esempio la “Bill & Melinda Gates Foundation”. Il problema è che solo il 20% del budget deriva dai contributi dei Paesi membri, mentre l’80% da tutto il resto: la mancanza di indipendenza dell’Oms è da ricercare in questo fatto, che va affrontato e risolto”.

A fine gennaio è stato sancito l’accordo, con il Ministero della Salute, per il “Panflu” (piano pandemico influenzale): le Sue considerazioni, al riguardo?

“Innanzitutto desidero fare chiarezza: è stato definito “influenzale” in quanto valido per tutte le pandemie che causano distress respiratorio. Il piano pandemico è unico e funge da passepartout per agenti patogeni che causano problemi respiratori: ciò non toglie che in futuro se ne possano realizzare altri più specifici. Il “Panflu” è stato però sviluppato alla fine del 2020, quando avevo già denunciato la mancanza del piano pandemico. Strano, no?”

Lei ha dichiarato che vorrebbe cambiare l’Oms: in che modo?

“Il mio libro intende raccontare l’Oms dal suo “interno”. L’ho scritto per evitare che la mia vicenda rimanesse lettera morta. Sia chiaro: ho sempre mantenuto un approccio costruttivo nei confronti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. “Il pesce piccolo” affronta sì le tematiche dei rapporti tra direttori eletti e Ministri, quelle relative a gerarchie, alla mancanza di indipendenza dell’Oms e ai finanziamenti. Ma lo fa in maniera costruttiva”.

Di cosa si occuperà Francesco Zambon, d’ora in poi?

“Al momento intendo dedicarmi alla divulgazione delle problematiche connesse all’Oms. In futuro mi auguro di chiudere questo capitolo così doloroso della mia vita. Le proposte professionali non mancano, tuttavia la “partita” si chiuderà solo al termine della causa che ho intrapreso nei confronti dell’Oms”.

Foto, Francesco Zambon (fonte SkyNews)