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“Stava, come e perché”, conferenza a Laives

15 Ottobre 2020

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“Stava, come e perché”, conferenza a Laives

Il Nuovo Teatro di S. Giacomo di Laives si accinge ad ospitare, alle 20:30 di sabato 17 ottobre (con ingresso libero e platea predisposta nel rispetto delle norme anti-covid), la conferenza «STAVA: COME E PERCHÉ», a cura del presidente della Fondazione Stava 1985 Graziano Lucchi e con la moderazione di Alberto Faustini, direttore dei giornali Alto Adige e L’Adige. Un evento che, dalle premesse, si profila come momento di inchiesta e di memoria insieme: una serata nella quale riavvolgere il nastro del tempo in cerca di risposte. 

di Roberto Marino

È il 19 luglio 1985. Un vento forte, strano, insolito, come un cupo presagio di morte e terrore. Una furia innaturale in un giorno di sole di una dolce tarda mattinata d’estate. Qualcosa di spaventoso che aspira tutto quello che trova: alberi, case, alberghi, capannoni; risucchia e distrugge in un vortice dell’orrore mai visto prima. Poi quell’odore acre, insopportabile, che prende alle narici, alla gola: di melma e fango, di acqua putrefatta e rimestata, una cosa disgustosa, amarognola. La Val di Fiemme si ritrova in un attimo nel peggiore degli incubi, senza capire.
Alle 12,22 la vita si ferma, e l’onda maligna che viene giù a monte dell’abitato di Stava cancella tutto, come un’Apocalisse arrivata da lontano. Un attimo e spariscono i piccoli e i grandi gesti, le abitudini, le donne che stanno preparando il pranzo, i bambini che giocano, gli anziani che leggono o guardano la tv, gli uomini intenti alle faccende di sempre. Niente più sarà come prima.

Il mostro di acqua e detriti si è risvegliato all’improvviso dalle viscere del bacino superiore di decantazione della miniera di Prestavèl: l’arginatura crolla sul bacino inferiore, che cede a sua volta. Un disastro: 268 morti, il più piccolo di neanche 5 mesi, il più grande di 84 anni. L’onda corre verso valle fino a raggiungere i 90 km all’ora. Spazza via ogni cosa; si porta dietro, nella sua corsa fino al torrente Avisio, 4,2 chilometri più giù, i corpi straziati di 28 bambini, 31 ragazzi, 120 donne, 89 uomini. Recuperarli sarà come un incubo nell’incubo. I resti appartengono agli abitanti della vallata ma ci sono anche quelli di villeggianti giunti da altre regioni italiane.

I soccorritori si trovano davanti uno scenario spettrale: ai lati del solco di morte tracciato dall’onda assassina ci sono le case e le altre cose sfiorate. Al centro un canalone brullo, largo in certi punti anche 90 metri, senza colori, pieno di fango e detriti. Dall’alto le immagini sono quelle di una ferita che ha cancellato la vita, simbolo di una distruzione senza precedenti. Si scava con gli occhi offuscati dalla rabbia. Ore e ore di lavoro meticoloso alla ricerca di un superstite.
Non c’è più nulla, solo dolore, disperazione, lacrime. Dove prima c’erano 56 edifici, 6 capannoni, 8 ponti, ora non ci sono neanche le tracce, sepolti da una melma maleodorante che in pochi minuti ha ingoiato anni e anni di lavoro, sacrifici, dedizione. Tutto sommerso da 180mila metri cubi di materiale iniziale, cui gli esperti aggiungono almeno altri 50mila di metri cubi accumulati nella tragica opera di erosione e sradicamento.
I tempi della sciagura scanditi nella sentenza della Corte di Appello di Trento, riportando i dati del sismogramma di Cavalese: il crollo iniziò alle 12,22’52”. Una prima fase della durata di 11 secondi e una seconda della durata di 19 secondi mostrano che il fenomeno si sta sviluppando. Dopo altri 26 secondi – cioè 56 secondi dopo l’inizio del crollo – si registra l’impatto con l’abitato di Stava. Dopo un minuto e 50 secondi: l’impatto con la periferia nord di Tesero. Dopo 2 minuti e 49 secondi la massa di fango sradica il ponte romano e il ponte sulla strada statale. L’onda maledetta ha percorso finora 3 chilometri e 300 metri, con una velocità di oltre 23 metri al secondo, prima di incanalarsi nella valle dell’Avisio. Una distruzione allucinante, durata meno di cinque minuti. Si poteva evitare? È la domanda che accompagna da almeno un secolo tutte le tragedie e le sciagure italiane.

Dopo i giorni del dolore, delle lacrime e del lutto, inizia per i sopravvissuti l’altro calvario, quello del percorso giudiziario. Fu una tragica fatalità o si poteva prevenire? Dopo quattro anni e cinque gradi di giudizio si è giunti a una verità giudiziaria: dieci condanne per i reati di disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Ma le pene, forse, non sono adeguate alla dimensione del disastro. Dagli atti del processo emerge che qualcosa si doveva e si poteva fare per evitare la sciagura. Non sono stati colti i segnali premonitori del crollo, è mancata un’accorta prevenzione, e più di un controllo non è stato fatto con quello scrupolo che la situazione richiedeva.
La tragedia del Vajont, anche se in circostanze e concause diverse, avrebbe dovuto fungere da monito, mettere in guardia sulla pericolosità di certi bacini. Lo confermano le parole dell’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nell’introduzione al libro “Stava perché”: «Oggi possiamo dire che bastava poco per evitare quel dramma. Quando quei bacini furono impostati e passarano ai numerosi vagli burocratici, c’è stata, evidentemente, una mancanza assoluta di senso di responsabilità da parte di coloro che ponevano firme e sigle su quei progetti. (…) Purtroppo l’inevitabile talora accade. Ma queste non sono cose che rientrano nell’inevitabile: queste sono tragedie che dovevano essere evitate». Una tragedia e una lezione, dunque, quella di Stava. Su cui appare più che giusto riaccendere i riflettori.

Foto di Dino Panato tratta da Archivio Fondazione Stava 1985