La giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne che ogni anno ricorre il 25 novembre, a mio avviso dovrebbe essere prima di tutto un’occasione per condividere la lotta all’intolleranza. Perché è proprio dai comportamenti intolleranti che sono alimentati da rigidità interne e pregiudizi che nascono e si sviluppano varie forme di discriminazione e di violenza. Coltivare la tolleranza, educare i bambini fin da piccoli ad essere flessibili e accettare le diversità contenendo in maniera adeguata le parti interne aggressive e prepotenti, dovrebbe essere un obiettivo primario delle funzioni educative.
La parola tolleranza, di derivazione latina, allude alla capacità di sollevare un peso e sopportarlo. Per estensione, il termine pone l’accento sul sé e sull’energia necessaria a reggere una fatica ed esercitare autocontrollo soprattutto nelle relazioni interpersonali e sociali. Perché la tolleranza è quanto ci serve per gestire i sentimenti negativi o distruttivi e al contempo riconoscere i diritti e le convinzioni degli altri.
La tolleranza però non va confusa con la distanza emotiva, tanto meno con l’indifferenza, che è uno sguardo altrove e una posizione di passività priva di partecipazione affettiva. Non è neanche espressione di debolezza come qualcuno sostiene. È invece forza, energia che consente di tenere botta nelle situazioni difficili della vita. Ed è qualcosa che ha a che fare con la flessibilità necessaria per poterci adattare alla realtà variegata che circonda l’esistenza.
Ma poiché l’essere tolleranti non è una dotazione di “fabbrica” o un’abilità del pensiero che ci ritroviamo già pronto alla nascita, questa va coltivata con attenzione. Si forma a partire dalle relazioni di attaccamento e dai legami di affetto che ci consentono di costruire il senso di fiducia negli altri e in noi stessi.
Poi però le fondamenta della tolleranza stanno nell’educazione, cioè in quel processo che permette lo sviluppo dell’individuo e la sua espansione, la realizzazione personale e quella sociale. Per questo i bambini vanno educati precocemente a diventare tolleranti soprattutto fornendo loro modelli di comportamento coerenti.
Riuscire ad essere tolleranti è un traguardo, a cu si arriva imparando a dare attenzione all’altro ed esercitando un ascolto empatico. È come coltivare una pianta che è quella della disponibilità, prima seminata in serra, ovvero nel privato delle relazioni familiari e poi messa a dimora, nel terreno delle interazioni collettive.
Forse la linea di confine tra tolleranza e intolleranza è sottile, ma il grado di intensità si può misurare ed è possibile percepire un livello allarmante quando il comportamento dei piccoli così come quello dei grandi è caratterizzato da forte difficoltà ad accettare il punto di vista degli altri e si manifesta con gesti aggressivi verbali e non verbali che evidenziano scarso rispetto, carenza di flessibilità mentale e di empatia.
Educare precocemente i bambini con questi obiettivi può essere il primo passo per contrastare la violenza in tutte le sue forme. Bisognerebbe però riportare in campo modalità di relazione molto trascurate negli ultimi tempi come l’attenzione alla gentilezza e alla gratitudine che, condizionate dalla fretta con cui viviamo, ha eliminato il piacere dell’attesa e l’importanza della pazienza.
Con lo stesso obiettivo si fa crescere tolleranza quando diamo valore ai processi di mediazione e insegniamo ai figli a negoziare, che è uno strumento privilegiato capace di contenere la conflittualità e aumentare collaborazione e condivisione.
In foto, Giuseppe Maiolo