Si rintanano in casa, spesso vittime di bulli che li prendono in giro
“A casa mia sto bene, ho la mia camera, il mio pc, il mio mondo!”. Così dicono quelli che piano piano se ne vanno da scuola e dalla vita di tutti i giorni richiudendosi in casa. Via da tutto. Incontrandoli, li ho sentiti più volte parlare quasi con fierezza, ma anche sollievo, della loro scelta. Non volevano essere aiutati a riemergere, ma piuttosto essere capiti. Sono i ritirati sociali, quelli che si allontanano da quella società che conoscono appena e che già li spaventa.
Sentono insopportabile la scuola, il confronto con i compagni e l’essere giudicati davanti a tutti anche se non hanno, ad angustiarli, difficoltà scolastiche o insufficienze. Nemmeno mancano di interesse per lo studio. Hanno solo paura e solitudine. Temono i contatti e le relazioni e si sentono incapaci di partecipare alla vita dei pari. Soffrono ma non lo dicono apertamente. In molti casi si tratta di ragazzi presi di mira dai compagni e derisi. Sono esclusi e sanno di non poter contare sui pari, quando invece a quell’età c’è tanto il bisogno del gruppo e degli amici.
Così molti di quelli che si rintanano in casa, sono vittime di bulli che li prendono in giro e li deridono per quella loro timidezza che alimenta il silenzio dietro il quale si nascondono. Impauriti e solitari vivono offese sottili e psicologiche che rende la loro vita un inferno insopportabile. Per questo non pensano altro che ad andarsene, scomparire e ritirarsi nascosti in una tana.
Prima però di segregarsi in casa, sono già degli isolati a scuola, emarginati ed esclusi, quasi sempre nell’indifferenza generale, perché nessuno degli adulti se ne accorge. Pochi gli insegnanti che intervengono in loro aiuto in quanto di solito li percepiscono come poco partecipi o disattenti.
Tutto per loro diventa difficile. Con motivazioni diverse, al passaggio dalla media alle superiori, piano piano si assentano realmente. Oggi un malore che ti impedisce di andare a scuola, domani un acuto disturbo psicosomatico che non ti fa alzare dal letto, fino all’insistenza di un malessere indicibile che supera le pressioni dei genitori e la loro ansia. Alla fine in famiglia si arrendono e loro scompaiono. Escono di scena. Si sottraggono fisicamente al mondo, anche se continuano a starci dentro con la mediazione di un monitor e di un PC che li lega alla vita che sta fuori. Ma si salvano.
Perché il loro ritiro è una difesa, una sorta di protezione da quella società che non capiscono e che non sentono accogliente. Fuggono con un assordante silenzio che, in codice, ci parla della loro protesta silenziosa, quella contro una società che non capiscono e non li aiuta. Ci dicono senza parole di quel loro dolore che hanno dentro, incomprensibile e difficile da tollerare.
L’hanno chiamata Hikikomori questa condizione. Comparsa in Giappone negli anni ’80, vuol dire proprio “starsene in disparte” e ora è in rapida diffusione anche da noi. Segnala in modo drammatico la vulnerabilità degli adolescenti di oggi che non sono malati, ma ragazzi in pericolo, questo sì. Perché così facendo hanno interrotto la traiettoria della loro crescita. Non hanno bisogno di cure o nel senso stretto di farmaci, ma di aiuto urgente a uscire da una condizione di isolamento assai rischioso. Vivono una vita in sospensione e denunciano uno stare fermi, come cristallizzati in una bolla che è fuori da tutto. Incapaci di sostenere lo sguardo degli altri che li angoscia, i ritirati sociali se non hanno una patologia, possono anticiparla. In fuga da tutto hanno deciso di vivere in una “stanza-mondo” che hanno scelto come rifugio e prigione. E lì, da reclusi, immaginano una realtà diversa, più adatta a quella fragilità che li caratterizza. Perché delicati e fragili sono questi ragazzi incapaci di tollerare errori e sconfitte e che noi adulti abbiamo reso oggi incapaci di affrontare gli inciampi e superare i fallimenti.
In foto, Giuseppe Maiolo – Psicoanalista – Università di Trento