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Raccontare la memoria contro la banalità del male

26 Gennaio 2019

Raccontare la memoria contro la banalità del male

La memoria non è solamente un processo fisiologico e un’importante funzione biologica che ci permette di trattenere e assimilare informazioni e conoscenze. La memoria è un magazzino, una sorta di “luogo” fisico di strutture nervose dove si accumulano esperienze e ricordi, storie e fatti del passato che appartengono a noi stessi o ad altri. Potremmo dire che la memoria coincide con la nostra stessa storia.

In sostanza è la vita di ogni creatura vivente, perché non può esserci azione che non abbia la necessità delle funzioni mnestiche. Ce ne rendiamo conto quando, con l’avanzare dell’età, la memoria cala o subisce modifiche e ancor di più lo capiamo quando la perdita progressiva della memoria segnala una patologia grave e degenerativa come la malattia di Alzheimer che annienta lo spazio, il tempo e ogni relazione. In mancanza di memoria non ci orientiamo, non troviamo un significato a quello che accade, non viviamo il presente e il passato è solo un verbo che non si coniuga con niente.

“Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo…” scriveva Primo Levi. Ed è per questo che la Giornata della memoria ci serve ogni anno: ci aiuta a non perdere il passato né a fare ingiallire le foto della storia, quella più terribile che non abbiamo vissuto e conosciuto direttamente, il cui ricordo però contiene vita e morte, sofferenza e dolore, tempo e sentimenti.

Questa è la memoria che va raccontata in continuazione. Perché ciò che conta sono le emozioni che i ricordi contengono.  Più le giornate della memoria, giustamente rumorose, servono storie da raccontare continuamente e ricordi da trasformare giorno dopo giorno. Non basta più quell’abbuffata di dibattiti e lezioni sull’orrore, di documenti e proiezioni sull’Olocausto, anche se utile. Non è sufficiente una memoria episodica delle tragedie accadute. Serve ma può non bastare a far crescere consapevolezza e coscienza su quella violenza quotidiana che oggi continua a imperversare ovunque. Altrimenti non ci troveremmo a dover fare i conti in questo nostro tempo con le varie forme di prepotenza, con il bullismo divertito dei bambini o con la crudeltà fredda e distaccata dei killer seriali e l’insistenza del femminicidio. Ma non dovremmo neanche per un istante permettere che si possa annegare nel nostro mare, men che meno riservare una scarsa indignazione collettiva alla prepotenza e all’arroganza del potere. Sappiamo da tempo che la normalizzazione della violenza è quel “fil rouge” che lega lo sterminio di ieri a quello di oggi.

Serve invece coltivare una memoria a lungo termine, quella che sa riconoscere l’odio spaventoso che ha travolto milioni di persone con l’odio razziale, ma non solo, che adesso circola facilmente in rete e contagia in forma virale i vissuti di tutti, dei bambini e degli adolescenti ma anche di molti adulti.

Ci servono narratori di storie. Abbiamo un bisogno vitale di raccontare la memoria ed è necessario che lo sappiano fare per primi i genitori con i loro figli. Adulti che sappiano raccontare di loro stessi e del mondo che hanno vissuto, del proprio cammino e delle strade percorse dal genere umano. Perché i figli di oggi non solo non conoscono la storia del passato, ma sanno poco o nulla dei loro padri. Non hanno idea dei genitori quando erano giovani o bambini e non sono consapevoli di ciò che è accaduto prima della loro vita perché quei padri non dicono, non raccontano e non lasciano consegne. Così non bastano più gli anniversari per contrastare quella “banalità del male” di cui parlava la filosofa Hannah Arendt. Come allora, quello che è più pericoloso e inquietante è l’indifferenza alla quotidiana espressione di intolleranza e di odio che, insieme all’abitudine, rende banale e normale la ferocia e il crimine.