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Palmira, Mosul, Aleppo: ci vuole Trump per la svolta?

13 Dicembre 2016

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Palmira, Mosul, Aleppo: ci vuole Trump per la svolta?

A Palmira l’Is tenta la sortita, attacca la base russa T4 (presenti elicotteri d’attacco e supporto logistico per i jet russi) e si prepara a creare una nuova roccaforte. L’aviazione russa martella Aleppo (al 70% in mano ai governativi) ma il fronte di fatto non viene sfondato. Anzi Kerry da Parigi ammonisce Damasco e Mosca, ma sembrano gli ultimi barlumi di una politica Usa che a gennaio cambierà diametralmente. A Mosul rimane lo stallo tra forze irachene/curde e Is. In questo momento non sembra gli eserciti siriano, iracheno e curdo riescano ad imprimere una vera svolta alle operazioni belliche. La guerra in territori del genere non è dissimile da quella in mare. Lo Stato Islamico conosce perfettamente questa strategia e gioca la carta velocità-improvvisazione, una frustata per poi scomparire lasciando sul campo null’altro che pochi mezzi pesanti (e qualche leggero Pk 4×4). Lo Stato Islamico ha ben compreso quanto gli eserciti autoctoni siano poco efficaci senza supporto occidentale o russo. Ad Aleppo inoltre la partita è doppia: la propaganda anti russa (creata ad hoc tra Qatar ed Arabia Saudita) ha portato molti occidentali a prendere le distanze dall’avanzata sulla città. Gli stessi occidentali che fino qualche mese addietro invocavano provvedimenti d’ogni tipo contro l’Is. La realtà? Tranne i russi, che hanno schierato sul campo discrete forze a supporto e per via diretta (forze speciali ed elicotteri d’attacco) tutti gli altri stati impegnati non hanno inciso. Dopo la liberazione di Palmira, grazie alla forza militare russa sul terreno la coalizione internazionale non ha saputo chiudere la partita. Usa ed Alleati hanno imitato Mosca a Mosul ma con risultati inferiori e stati come Francia, Italia o Gran Bretagna, chiamati a dare un contributo più solido hanno in realtà cercato di contribuire il meno possibile. La Francia ha mosso la propria portaerei nucleare ed effettuato raid post attentati, più per placcare la propria opinione pubblica, che per effettivi risultati militari, Francia che ha preferito concentrarsi in Africa Occidentale, senza di fatto coinvolgere gli europei nella gestione non proprio acutissima di una porzione di territorio di fatto origine di quei flussi di persone che ogni giorno si riversano sulle sponde del Mediterraneo. La Gran Bretagna, oltre ai soliti istruttori e forze speciali in appoggio d’azioni autoctone unite a “guardiani d’installazioni”, tutte iniziative abbastanza marginali. Londra e Parigi partecipano a missioni di bombardamento ma il grosso è gestito dagli Usa. Poi c’è l’Italia. Mai convinta da Kerry nel tuffarsi nel ginepraio libico, la posizione del nostro paese è “logistica” e di “guardia”. Istruttori e forze speciali, presidiate opere d’interesse nazionale come le installazioni Eni o la diga di Mosul (riparata e gestita da imprese italiane). L’ Italia inoltre non ha voluto rischiare interventi più massicci nonostante l’opinione pubblica fosse esasperata dalla questione del Mediterraneo. A questo aggiungiamo il rinnovamento d’ aeronautica (F-35 ancora in fase di consegna, anche la versione per la marina) e marina. Il paese non ha voluto rischiare una nuova missione “Arcobaleno”, l’Albania anni’ 90 era infatti tutt’altra questione geopolitica. Ma la Libia sembra la spada di Damocle pendente su qualsiasi capo di stato italiano del futuro prossimo. Caduto Renzi e tralasciando i governi transitori una soluzione all’ emergenza profughi (che la Ue ha definito tali in un 10%) va portata in porto. Nel frattempo l’Isis tasta le difese di chi cerca di contenere lo stato dalla bandiera nera. Come? Un po’ come fece Rommel in Africa durante la Seconda Guerra Mondiale. Sortite con Rpg-7, colpi d’armi leggere, utilizzo di Pk, veloci, dotati di mitragliatrici definite “medie”, utilizzati strategicamente per testare difese e movimenti delle truppe arroccate in basi e spesso non autoctone ma dal movimento fuori base nullo. Lo Stato Islamico è conscio che i militari occidentali non intervengano direttamente. Quindi, ricapitolando, Rpg-7 contro i nostri militari a Mosul, stessa arma verso la T-4 russa. Dopo l’attacco l’aviazione pesante russa o alleata che sia decolla e nel giro di 7/8 minuti è su obiettivo, di solito anticipata da elicotteri d’attacco. In questo lasso di tempo gli attaccanti si dileguano o si fanno esplodere, magari verso la base stessa. Is non cerca scontri con forze occidentali di terra, anche se la cattura d’eventuali militari “crociati” è obiettivo primario per le prime linee nere. Lo Stato Islamico sembra quindi in fase di stallo controllato strategicamente, pronto al contrattacco su Palmira e prontissimo a destabilizzare paesi come Egitto, Tunisia, Nigeria e devastare le capitali d’Iraq e Siria. Fase delicata, per un soggetto militare non in ritirata, lo hanno capito anche i Curdi a Mosul, sempre in affanno e supportati solo dall’aviazione alleata, privati d’armi pesanti, costretti ad affidarsi ad istruttori italiani per la guerra porta a porta da compiersi con armi leggere. Ad Aleppo la situazione è simile, Mosca non intende schierare propri mezzi corazzati finché non saranno “aggiustati i rapporti“ con gli Usa. Tutti guardano a Trump. Il presidente Usa infatti ha fretta e voglia di chiudere la partita entro l’estate. Il come? Lasciare in primis mano libera a Putin e dare aiuto concreto ai Curdi preso Mosul. Con truppe di terra? Questo ancora non lo si può affermare ma sicuramente il nuovo Presidente Usa metterà i propri alleati con le spalle al muro: a Roma, Parigi e Londra i valzer di dichiarazioni tra i portavoce militari, ministri e governi potrebbero non bastare più.

Giornalista pubblicista, originario di Bolzano si occupa di economia, esteri, politica locale e nazionale