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Massimo Campanini, “in linea del tutto teorica, l’islam sunnita applica, come il cristianesimo protestante, la libera interpretazione delle Scritture”

3 Ottobre 2016

Massimo Campanini, “in linea del tutto teorica, l’islam sunnita applica, come il cristianesimo protestante, la libera interpretazione delle Scritture”

Massimo Campanini è docente di Islamistica e Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento. È autore di numerose monografie e saggi importanti, come “Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo”, “Islam e politica”, “Il Corano e la sua interpretazione”, “Le rivolte arabe e l’islam, la transizione incompiuta”, “Storia del Medio Oriente contemporaneo”, “Introduzione alla filosofia islamica”, “Al Ghazâlî. La bilancia dell’azione e altri scritti”, etc. Abbiamo intervistato il Prof. Campanini sulla condizione dei musulmani in Trentino Alto Adige, la cultura e il Pensiero Islamico.

Prof. Campanini, Lei è esperto di STORIA DEI PAESI ISLAMICI e di Pensiero Islamico. Suppongo che i musulmani che vivono in Trentino Alto Adige siano prevalentemente sunniti. Tuttavia notiamo che non sussiste una netta unità tra loro. Centri di cultura e luoghi di preghiera diversi. Perché? Considerando il sunnismo è pensabile che un gruppo consistente di sunniti accettino di essere rappresentate da una persona? In fondo in Italia esistono delle Associazioni musulmane grosse e anche importanti.

In Trentino Alto-Adige, come nel resto d’Italia, la stragrande maggioranza dei musulmani è sunnita. Le differenziazioni interne, anche profonde e in grado di suscitare conflitti, dipendono dal fatto che nell’islam sunnita non esiste magistero docente centrale, simile a quello della Chiesa cattolica; non esiste cioè un’autorità univoca di riferimento. In linea del tutto teorica, l’islam sunnita applica, come il cristianesimo protestante, la libera interpretazione delle Scritture. Naturalmente, è necessario essere qualificati per farlo, ma se si è qualificati, le opinioni dell’uno o dell’altro imam sono equipollenti. Una può prevalere sull’altra solo grazie alla maggiore autorevolezza di un certo sapiente, o al consenso per così dire “popolare”, ma non perché un dotto religioso sia gerarchicamente superiore a un altro. Ciò implica evidentemente la difficoltà della comunità nel suo complesso a essere rappresentata da una sola persona. Certo, le singole associazioni hanno i loro imam e dotti di riferimento, ma come ridurle a un’unica visione? L’accordo deve essere interno, mediato e discusso, non può essere imposto dall’alto come il papa può nominare un vescovo, imporre indirizzi di comportamento obbligatori per tutti i credenti o definire un dogma.

La cultura musulmana è anche caratterizzata da un modo di vivere diverso. Se pensiamo alle feste musulmane, ai cibi ĥalāl e non solo, è comprensibile che non sia sempre facile per chi è nato e cresciuto qui comprendere questi costumi. Secondo Lei cosa dovrebbero fare le nostre Istituzioni per favorire una maggiore integrazione e naturalmente l’accettazione di questo modo di vivere diverso?

Credo che sia solo questione di buona volontà da parte di tutti, le istituzioni da una parte e i musulmani dall’altra. Prendiamo il caso degli ebrei e dell’ebraismo. Anche gli ebrei hanno le loro feste che non coincidono con quelle cristiane. Anche gli ebrei hanno il cibo halal, lecito, il cibo kosher come si dice, e il cibo illecito o proibito: anche gli ebrei non mangiano carne di maiale, non mangiano certi tipi di pesce, esigono che la macellazione privi l’animale di tutto il sangue. Anzi, le prescrizioni alimentari ebraiche, se rigorosamente rispettate, sono assai più restrittive di quelle islamiche. Eppure non c’è nessun problema da parte delle nostre istituzioni a rispettare le feste ebraiche, a consentire l’apertura di scuole ebraiche, ecc. perché lo stesso non si potrebbe fare coi musulmani? Ripeto, mi pare questione di buona volontà, oggi tuttavia coartata dall’ingiustificata paura che l’islam suscita. Bisogna cominciare a non sospettare che ogni musulmano sia un potenziale terrorista, a riconoscere la legittimità della richiesta delle famiglie musulmane che chiedono che nelle mense scolastiche non sia servito prosciutto (come non lo si serve agli alunni ebrei), ad aprire canali di dialogo politico e amministrativo che riconoscano per esempio ai musulmani i diritti di cittadinanza, almeno per quelli nati in Italia che devono essere considerati italiani a tutti gli effetti. Naturalmente, ai musulmani spetta di essere altrettanto meno diffidenti rispetto alla buona volontà degli italiani, e soprattutto più flessibili a rivendicare un’identità che deve comunque venire a patti con le società di accoglienza, costituendo un “islam europeo”.

Purtroppo ancora molti confondono l’Islam con l’Islamismo. Cosa proporrebbe? Una maggiore informazione nelle scuole?

L’educazione e la conoscenza sono sempre le radici primarie della consapevolezza civica, della capacità critica, e della sconfitta dei malintesi e dei pregiudizi. Per cui, certo, maggiore informazioni nelle scuole; maggiore apertura nelle università; maggiore equilibrio nell’informazione da parte dei mass-media, spesso approssimativi nelle nozioni e/o deliberatamente ostili nelle interpretazioni. Il musulmano non è per forza “islamista”, nel senso attuale del termine, cioè radicalizzato. Gli islamisti radicalizzati sono (ancora) infima minoranza. Ma potrebbero non esserlo più, infima, se non si arriva alle radici socio-politico-economico-ideologiche della “rabbia” musulmana, come diceva Bernard Lewis. Ed è chiaro che per farlo ci vuole conoscenza della storia e del pensiero dell’islam.

Oggi abbiamo molti ragazzi di seconda generazione che sono di religione musulmana, ma lontani dalla cultura del Paese dei loro genitori. Cosa potremmo fare per farli sentire veramente italiani, anche se non hanno il passaporto italiano perché sono figli di immigrati?

In primo luogo, come detto prima, farli sentire cittadini, dare loro subito, senza indugi, cittadinanza piena, che vuol dire per esempio opportunità di lavoro e inserimento sociale. In secondo luogo smetterla di agitare luoghi comuni come “il velo è strumento di oppressione delle donne”: il portare il velo è (quasi) sempre frutto di libera scelta da parte delle giovani; intendo il foulard naturalmente (il hijab) non il niqab (la copertura integrale). I problemi femminili sono altri, non il velo in sé. In terzo luogo, accettare la cultura musulmana come integrativa dell’islam europeo, non per forza come alternativa ai valori occidentali (e questo ancora una volta si può attraverso l’educazione).

Un’ultima domanda. C’è chi ha paura dell’Islam. Suppongo che non sia sufficiente leggere il Corano per superare questa paura, o sbaglio?

La lettura del Corano con un commento storico-religioso adeguato (al proposito consiglio l’edizione critica recente a cura di A. Ventura e Ida Zilio Grandi, Mondadori 2012) è esercizio altamente consigliabile e certamente acquieterebbe molte paure prodotte da fraintendimenti, come quelle relative al concetto di jihad. Ma naturalmente ciò non è sufficiente se non vi si aggiunge la prevenzione del pregiudizio per cui islam = terrorismo. E ancora qui ritorniamo al punto dolente: educazione, conoscenza e correzione del fuoco incrociato islamofobo della maggior parte dei mass-media.

Giornalista pubblicista, scrittore.