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Benko, analisi comparative, salvaguardia del bene pubblico o taglio d’offerta per il consumatore?

25 Marzo 2016

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Benko, analisi comparative, salvaguardia del bene pubblico o taglio d’offerta per il consumatore?

Benko, analisi comparative, salvaguardia del bene pubblico o taglio d’offerta per il consumatore?

A Bolzano ormai non si parla d’altro. Benko o non Benko, la città si strugge su questo tema ormai da qualche anno. In tutto questo discutere però è facile (specialmente in campagna elettorale) mettere l’ideologia politica davanti a tutto il resto. Questo paradigma d’approccio vale per i sì, che pestano sul pedale del degrado, Benko come risolutore di grane varie. Ma anche i no risultano essere imbottigliati tra salvaguardia del verde pubblico (in realtà abbandonato da anni) ed impatto economico sui “piccoli commercianti” (ma allora dovrebbe valere per tutte le catene di grande distribuzione anche se locali). Insomma il cittadino chiamato alle urne ha una bella gatta da pelare. Per approcciare al meglio ed in modo neutro ho deciso di “spezzare” in due il lavoro. In questo primo articolo troverete una parte generale riguardo l’impatto economico dei centri commerciali in realtà non dissimili dalla nostra. Una infarinatura generale basata su dati ed evoluzione d’essi, quindi non semplici simulazioni o studi d’analisi basati sì su dati reali ma in proiezione. In questo caso invece sono descritte situazioni reali. Per capire bene la seconda parte (in uscita nei prossimi giorni) vi esorto a leggere con attenzione questa infarinatura che spiega nel dettaglio certi aspetti non ancora approfonditi.

Parte generale riguardo “centro commerciale e sindrome Nimby”

Nimby, ovvero not in my back yard. L’acronimo è normalmente riferito al diffuso fenomeno dell’opposizione da parte di comunità locali all’ubicazione di strutture e impianti di “utilità pubblica”, ma ad alto impatto sociale e ambientale sul loro territorio: in Italia, secondo i dati del Nimby Forum, sono stati ben 320 gli impianti oggetto di contestazione nel 2015, 13,1% in più rispetto all’anno precedente. Generalmente quando si parla di Nimby si pensa alle battaglie delle comunità̀ contro le grandi opere, più o meno necessarie per lo sviluppo del paese come centrali elettriche, inceneritori, discariche, autostrade, che figurano infatti tra le opere maggiormente contestate; ma la contestazione si rivolge anche verso opere di scala sicuramente inferiore, ma molto più diffuse sul territorio, come i centri commerciali. Un semplice test sul web: digitando le parole “comitati contro i centri commerciali”, la ricerca porta alla luce l’esistenza di decine di gruppi di cittadini contrari all’insediamento di grandi strutture commerciali nel proprio territorio. Senza addentrarsi nella ricerca delle motivazioni profonde del rifiuto di ospitare opere ritenute in qualche modo problematiche, in questo caso specialmente da un punto di vista socio- territoriale prima ancora che ambientale in senso stretto (l’impatto ambientale di un centro commerciale non può essere infatti paragonabile a quello di un grande impianto inquinante), è interessante sviluppare quelli che sono i principali elementi di contestazione di queste opere, che vedono spesso opporsi due fronti distinti all’interno delle stesse comunità locali: chi vede nei centri commerciali la causa di devastazioni territoriali e di grandi afflussi di traffico non sopportabili dal territorio e chi vede nello sviluppo commerciale la leva per creare nuovi posti di lavoro. Al di là delle interpretazioni classiche della sindrome di Nimby, quindi, che, da letteratura, è principalmente riferita a grandi opere di interesse generale, imposte dall’alto e con impatti sul territorio molto consistenti e in gran parte inevitabili, in questo caso la situazione appare assai diversa, ponendo in primo piano il ruolo delle amministrazioni locali relativamente alle scelte di sviluppo del territorio: quanto impatta realmente un nuovo centro commerciale, crea più traffico o porta nuove infrastrutture, crea posti di lavoro o distrugge il tessuto commerciale esistente, si inserisce in modo devastante nell’ambiente circostante, precludendone altri tipo di sviluppo futuro o interviene in un territorio che può ben sopportare una nuova opera, se questa porta occupazione e servizi? Non esiste una letteratura esaustiva che individui gli impatti legati a un insediamento commerciale su un determinato territorio, ma in compenso esiste un nutrito elenco di luoghi comuni; se infatti tutti gli aspetti citati finora sono sicuramente rilevanti, nessuno di essi è valido di per sé. Le preoccupazioni legate a un nuovo insediamento commerciale possono riguardare in primo luogo l’aumento di traffico, l’impatto visivo e il consumo di suolo da un punto di vista ambientale, e gli impatti su occupazione e strutture commerciali esistenti. Se per quanto riguarda gli aspetti ambientali, un nuovo centro commerciale è sicuramente definibile come grande generatore di traffico, e cioè “una costruzione che, a causa del traffico che genera, presenta una forte incidenza sul territorio e sull’ambiente” (Ufam, Svizzera 2006) e presenta impatti da un punto di vista paesaggistico, soprattutto se collocato in contesti non fortemente urbanizzati (non è il nostro caso), per quanto riguarda le implicazioni economiche, i risultati possono essere differenti. La creazione di nuovi posti di lavoro, sia direttamente impiegati nella nuova struttura, sia valutabile come indotto generato sul territorio, andrebbe infatti analizzata caso per caso alla luce di altre considerazioni. Un nuovo centro commerciale può infatti incidere pesantemente sul tessuto commerciale esistente, soprattutto per quanto riguarda gli esercizi di vicinato. Da uno studio Irer del 2006 che ha analizzato 5 casi lombardi emerge come “in media la realizzazione di 1.000 mq di superficie di vendita di una grande struttura determini l’uscita dal mercato da 1 a 6 esercizi di vicinato (isocrona 0-10 minuti) e di circa 230 mq di medie strutture (corrispondente alla media tra l’impatto nullo di alcuni bacini e i 460 mq medi degli altri). Nel comparto alimentare l ’ingresso di un nuovo competitor di grandi dimensioni ha determinato un’accelerazione delle chiusure (già in corso) di punti vendita di piccole dimensioni. Per il comparto non alimentare l ’impatto si è concretizzato in un rallentamento di una dinamica positiva. Per il comparto non alimentare non si assiste all’uscita di imprenditori/ occupati dal settore, ma alla riduzione delle potenziali opportunità di imprenditorialità/ occupazione: mediamente il 50% dell’impatto riguarda punti di vendita specializzati in abbigliamento e calzature”.

A questo dato va aggiunto, però, che le stime fanno riferimento a contesti territoriali con consumi privati molto dinamici: si potrebbe affermare che laddove i consumi aumentano di più, la competizione sia meno stringente e l’effetto espulsione delle piccole attività potrebbe essere leggermente inferiore, e viceversa per i contesti meno dinamici; è infatti evidente come, se la spesa resta la stessa, gli acquisti che saranno effettuati presso il nuovo centro commerciale in progetto dovranno essere distolti dagli acquisti che si effettuano negli esercizi oggi esistenti. L’offerta commerciale: i risultati in un’area completamente sprovvista di insediamenti di grandi dimensioni potrebbero pertanto essere notevolmente diversi. Uno studio dell’Osservatorio regionale del commercio del Piemonte ha verificato come nel periodo 1999-2000, nel comune di Serravalle Scrivia (AL), la tipologia commerciale più dinamica è stato l’esercizio di vicinato – inferiore a 150 mq – che ha fatto registrare un incremento percentuale del +5,6%. L’aumento non è stato temporalmente successivo all’apertura del Factory Outlet Centre, avvenuta nel settembre 2000, poiché l’ultima rilevazione risale a ben nove mesi prima. Pare in ogni caso ipotizzabile che la discussione pubblica intorno all’opportunità di dare seguito alla proposta di apertura del nuovo outlet abbia innescato aspettative rilevanti nei confronti di un aumento consistente dei flussi dei consumatori indotto dal nuovo centro commerciale, aprendo la strada a investimenti aggiuntivi in iniziative commerciali autonome (Osservatorio regionale del commercio, 2000). Ulteriori elementi critici per la valutazione dell’impatto economico e territoriale di un nuovo insediamento commerciale sono quelli legati ad altre modificazioni nelle dinamiche locali del gettito fiscale, dei valori immobiliari e fondiari, soprattutto in relazione all’emergere di nuove opportunità insediative (richiesta di cambiamenti di destinazione d’uso dei suoli agricoli, realizzazione di nuove attrezzature ricettive, nuove aree di aggregazione in concorrenza con il centro storico urbano). Come può dunque il decisore pubblico districarsi da questo groviglio di posizioni? Innanzitutto attraverso un lavoro di “prevenzione” e cioè coinvolgendo nei percorsi progettuali e all’inizio dei processi decisionali le comunità locali e i portatori di interessi sul territorio. In secondo luogo sfatando i miti, e cioè tramite un accurato lavoro di analisi sociale economica e ambientale del territorio in questione, in cui coinvolgere le comunità locali e che tenga conto della storia del territorio e le dinamiche attuali, per valutare le possibili prospettive di sviluppo del territorio, e non per giustificare scelte già in atto: le opzioni per lo sviluppo del territorio possono essere molteplici, e non devono per forza implicare la costruzione di una nuova struttura, commerciale o di altra natura. L’opzione “zero” deve essere quindi valutata nelle sue conseguenze come qualsiasi altra opzione. Lo studio e la pianificazione degli obiettivi prima delle decisioni quindi. E dopo? Solo la verifica delle previsioni ipotizzate in fase di studio, e cioè il monitoraggio ex post degli impatti dell’insediamento, possono consentirci di validare la metodologia utilizzata, valutare l’efficacia degli interventi di mitigazione, intervenire con strumenti di correzione. E comunicare alle comunità locali i risultati raggiunti o le problematiche emerse, unico step finale possibile per chiudere il circolo virtuoso della partecipazione. Ulteriore elemento critico è la valutazione dell’estensione dell’offerta commerciale del territorio. Lo studio citato fa infatti riferimento a un contesto che si potrebbe definire “saturo” per quanto riguarda

Fonti Bibliografiche: dati istat, analisi comparative green institute, report economici arpa Italia

Giornalista pubblicista, originario di Bolzano si occupa di economia, esteri, politica locale e nazionale