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Storia&Costume

26 Dicembre 2015

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Storia&Costume

Prefazione dell’autore

Ho creato questa sorta di rubrica per divulgare “pezzi” di storia d’Italia spesso bollati ed etichettati, confezionati e venduti come tali, spiegati solamente da un punto di vista unico. Ho cercato di dare a questi periodi sfumature diverse, consultando tutte le fonti disponibili. Dall’epoca romana ad oggi ho ripercorso la storia del nostro paese a cicli, il primo che ho deciso di pubblicare è quello riguardante il fascismo. Periodo storico particolarissimo, del tutto distante dal nazismo (il neologismo nazifascismo è concettualmente errato), un fenomeno su cui si sono sprecati chili d’inchiostro ma sul quale ancora molto vi è da dire. Il taglio è quello solito, pamphlet ironico con punte di pensiero. Il ciclo del fascismo comprenderà: Intellettuali di ferro, poi di bronzo…, L’Italia in nero: il trionfo dell’italiano, La diarchia, Impero, Mussolini: aveva sempre ragione, L’inizio della fine, La catastrofe, Genesi repubblicana in stivali.

Il ciclo del fascismo (storia d’Italia a tutto tondo)

Parte Prima

Intellettuali di ferro

Chi scrive quando da studente frequentò l’Istituto Magistrale diventò amico virtuale di Nicola Abbagnano. Agli albori di internet (eravamo negli anni ’90) il libro era ancora l’unica fonte di sapere e gli scritti del Nicola nazionale mi attirarono particolarmente. Lessi perfino il dizionario di filosofia, scritto di pugno dall’Abbagnano, filosofo di rilievo e manualista. Qualsiasi studente umanistico italiano avrà avuto nella sua vita scolastica un manuale scritto da Abbagnano, morto nel 1990 a novant’anni suonati. A scuola spesso capita che in letteratura e filosofia vi siano autori portati in palmo di mano ed altri demonizzati. D’Annunzio ad esempio, massacrato da moltissimi professori e bollato come fascista, eppure non ebbe mai un gran rapporto con Mussolini (il quale gli “fregò” motti ed idee) che lo spedi in esilio dorato. Per ripicca il Vate non prese mai la tessera. Non lo dice nessuno. Chi invece è sempre dipinto come buono, una sorta di padre, è il sommo Pascoli. Poeta conosciuto per poesie di una sensibilità estrema, sconosciuto invece come editorialista del Corriere della Sera, vero guerriero con la penna, convinto sostenitore del famoso posto al sole che spetterebbe all’Italia, ancora più convinto colonizzatore della Libia. Mentre il buon Pascoli si batteva per conquistare la Libia, Mussolini si sdraiava sui binari (con Nenni) per evitare che i treni carichi di soldati raggiungessero i porti ad imbarcare il nostro esercito alla volta di Tripoli. Nello stesso momento il Vate conquistava più cuori che territori a Parigi e ci confezionava neologismi come “tramezzino”, da lui consumati (a scrocco per lo più) nei caffè d’intellettuali parigini. In Italia quindi dopo il 1945 molto fu dimentica, altro tagliato e molto distorto. Abbagnano per esempio, come scrisse Salvadori fu “fervemente fascista”, durante tutti gli anni ’30 “a più riprese ed in diverse sedi manifestò il proprio convinto consenso alla dittatura, con toni e forme che escludono una sorta di pedaggio opportunistico”. Già il pedaggio opportunistico, con questa congettura molti intellettuali ripulirono i vestiti dopo il 1945. Tre libri per approfondire la questione: L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo (Laterza) di Luisa Mangoni, Il fascismo e il consenso degli intellettuali (il Mulino) di Gabriele Turi e La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi) di Angelo d’Orsi, che non hanno ritenuto di dover dedicare neppure un cenno al rapporto Abbagnano-fascismo. Nella mia mente di scolaretto infatti Abbagnano apparteneva ai puri, cioè a coloro che avevano respinto il regime. Purtroppo non fu cosi. Vediamo il perché.

Nel 1932, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico del liceo in cui insegnava, Abbagnano «celebrò in maniera entusiastica il regime, i suoi successi in generale e in particolare le sue benemerenze sul fronte scolastico» In quel discorso, il filosofo plaudeva all’opera di Mussolini e del regime, grazie al quale «tutti i vecchi istituti dello Stato liberale, completamente incapaci a reagire contro quella disgregazione della coscienza politica italiana, che era l’ultimo e tristo retaggio delle secolari divisioni che avevano afflitto l’Italia, tutti i vecchi istituti, diciamo, sono stati rifatti e rinnovati secondo il nuovo spirito della Nazione». Alla «degenerazione parlamentaristica» si era opposto finalmente «saldo e granitico» un governo «vigile e duttile a tutte le esigenze e gli interessi nazionali, vero organo centrale propulsore di vita e di progresso». «Il Parlamento, sottratto alla sterile gara delle ambizioni, è stato ricondotto alla sua dignità e alla sua vera funzione di consigliere e collaboratore del potere esecutivo». Un vero trionfo insomma. Un sermone da far invidia ad un certo Gentile, filosofo pure lui, fascista convinto e creatore della riforma scolastica del 1924. Ad onor del vero l’unica riforma scolastica strutturale e decente applicata in Italia e di fatto ancora in vigore con qualche modifica. Il modello di Gentile portò l’Italia del dopoguerra in ambito europeo ad essere invidiata nel forgiare geometri, periti e ragionieri. Creatore del liceo classico (che stupì gli americani), scuola unica al mondo che si dedica alle scienze umanistiche. Ad essere onesti intellettualmente ad oggi nessun governo democratico ha fatto meglio, chi insegna in cuor suo lo sa. Ma torniamo ad Abbagnano. Fino ai primi anni ’40 Abbagnano aveva poi appoggiato ogni iniziativa di Mussolini, a partire dalla guerra d’Etiopia per continuare con le politiche che ne seguirono. «La Nazione italiana», scriveva nel 1939, «ha creato, con l’Impero, una forma di organizzazione politica che ha i tratti essenziali di un’esperienza politica ideale, di un’esperienza cioè nella quale la vita spirituale e la forza si conciliano nella più armonica unità». La guerra, proseguiva, pone ogni uomo di fronte «all’alternativa tra l’essere se stesso nella propria storia e il disperdersi in una vita senza storia». Al cospetto «di questa alternativa, i popoli stringono le fila, si purificano e si definiscono». E qui, secondo Salvadori, il riferimento alla purificazione, nient’affatto generico, «era una positiva adesione a quella politica razziale che, nei Ricordi, Abbagnano avrebbe detto di aver respinto con sdegno sofferente». Già lo “sdegno sofferente”, altra arma postuma utilizzata da diversi intellettuali per andare a Canossa, ripulirsi l’anima e tornare a pubblicare. Certo i libri di Abbagnano cambiarono molto, pochi riferimenti alla nazione, nessuno alla purezza, il lavoro del filosofo si concentrò molto sulla manualistica con risultati ottimi. La filosofia nei licei venne (e viene) quindi spiegata da un ex fascista convinto. Abbagnano non fu l’unico a credere nel fascismo, ad inizio anni Venti lo stesso Nenni, poi Einaudi e perfino Croce per qualche tempo videro in Mussolini quel quid in più in grado di risvegliare l’orgoglio intellettuale italiano. Parte infatti tutto da qui. L’intellettuale rispecchia l’italiano medio, dopo secoli di batoste, umiliazioni, al soldo degli stranieri, l’Italia finalmente unita cercò d’infilarsi ove il Risorgimento le promise. Già il Risorgimento. Una bellissima donna con cui l’Italia entro in simbiosi, un movimento che si rifaceva alla nostra età romana, a quando il mondo s’inginocchiava davanti a Roma, a quando Italia era sinonimo di: organizzazione, forza, cultura e tecnologia. Mameli lo espone chiaramente nel nostro Inno, Scipione idealmente combatte con i garibaldini, cosi come Ferrucci, fiorentino ucciso dal mercenario Maramaldo. Questo sogno però verrà spezzato, i Savoia non seppero dar vera unità e ci volle la Grande Guerra per diventare italiani. L’Italia moderna nacque tra i pidocchi, il fango ed il sudore dei nostri fanti, nacque sul Piave, nacque sul Carso, non con l’elmo di Scipione ma con il cappello d’alpino. Dopo la guerra però Francia ed Inghilterra ci fecero capire che nonostante i nostri sforzi e la vittoria sul campo non potevamo considerarci al loro livello, Wilson poi fece il resto. Il nostro governo protesto, la nazione s’indignò ma i risultati furono modesti. Ci pensò allora l’istrione D’Annunzio, intellettuale che s’inventò conquistatore di Fiume, con i suoi legionari fece scalpore. Mussolini capi l’andazzo e ci sguazzò. Mise al centro della sua politica il riscatto nazionale. A differenza del Vate, utilizzò un linguaggio giornalistico e più razionale. I risultati concreti non furono esaltanti, a noi non venne dato un modero quadrato d’Iraq e relativi pozzi ma a livello mediatico l’Italia fu considerata potenza. La partita fu chiusa nel 1936: con la conquista dell’Etiopia il nostro popolo si senti “inglese”. I nostri intellettuali fecero il resto. A larga maggioranza si sentirono parte nevralgica di una nuova potenza mondiale. Mussolini fondò l’Accademia e l’Enciclopedia (la famosa Treccani), il mondo intellettuale gongolò. L’Italia finalmente si sedeva vicina alla Francia, fino a quel momento per antonomasia culla della cultura (noi eravamo più considerati un museo). Dopo il 1945 tutto questo fu defascistizzato ma di fatto rimase tale e quale. Ungaretti ad esempio, accademico d’Italia, fece perfino lezioni in televisione. Gli italiani condannarono il fascismo in blocco, mantenendone però moltissime creazioni in vita. Intellettuali e carta stampata fecero il resto. Diventammo cosmopoliti per opportunità (dovevamo all’estero dare una immagine nuova) ma mantenemmo strutture create durante il ventennio. Quest’aspetto non sfuggi a tutti, inglesi ed americani fecero finta di nulla, sempre meglio di una deriva rossa. Del resto, a chi verrebbe mai in mente di non citare la Treccani perché fascista?

Giornalista pubblicista, originario di Bolzano si occupa di economia, esteri, politica locale e nazionale