L’oscuro lavoro dei nostri corpi d’elite raccontato come mai prima
Afghanistan, provincia di Herat. Sole battente. In Italia, a quest’ora, c’è chi sta andando a fare la spesa, chi in ufficio, chi porta ai bambini a scuola. Ma siamo in un paese lontano dai nostri pensieri perché lontana è la gente che lo abita, la cultura, la storia, le vite, le facce. Siamo in Afghanistan Polvere che s’infila dappertutto e che diventa tutt’uno con il sudore che intorno all’occhio appoggiato sul mirino del fucile di precisione scruta i propri compagni scendere dall’elicottero e circondare l’edificio. All’interno due persone da catturare e tre ostaggi da liberare. Tutto top secret. In Italia nessuno saprà mai nulla. In testa ha questo Nicola (nome di fantasia): in caso di missione riuscita avrà fatto il suo dovere, in caso di fallimento nessuno saprà nulla. Perfino la sua famiglia non ha la più pallida idea di dove e come operi Nicola. Lui è un carabiniere del Gis. Nicola è uno sniper, quello che deve prevedere in pochi secondi dal suo mirino chi potrebbe essere potenzialmente pericoloso per la sua squadra. Il vento sbatte sulla lamiera di questo tetto ridotto a cratere, accartocciata da una raffica sparata da qualche Mangusta in azioni precedenti, Nicola sente solo il suo deglutire, silenzio, colpi di Ak47 e di Beretta SCP 70/90, fumo nero e in pochi minuti gli uomini della 45 fanno irruzione e recuperano due dei tre ostaggi e arrestano due persone. Anche questa volta Nicola può riporre il suo BCM Etreme MAAR e rientrare in elicottero alla base di Herat. La vita quasi quotidiana dell’incursore italiano è più o meno cosi. I talebani li chiamano semplicemente «mostri»: ne riconoscono il rumore silenzioso, quando sui loro blindati navigano nella notte sulla marea desertica afghana.
Meno di duecento uomini selezionati, principalmente tra le fila del Nono Reggimento Col Moschin e integrati da incursori della Marina, alpini paracadutisti, carabinieri del Gis e forze speciali dell’Aviazione.
Tutte le guerre hanno un loro risvolto segreto e quello degli incursori della Task Force è uno di quelli meno conosciuti. Nel tentativo di raccontare le strategie e le forze profonde che animano un conflitto, spesso sfuggono aspetti essenziali della realtà quotidiana. «Bombe, trappole esplosive, anche rudimentali – spiegavano gli esperti della Task Force – sono insidie micidiali e a volte la tecnologia non basta. Se i talebani impiegano ordigni elettronici sofisticati per far saltare una bomba, abbiamo i mezzi per anticipare la minaccia. Ma con una semplice miccia o una mina a pressione aggirano anche i detector più sofisticati». Questo è il problema della guerra asimmetrica. Il caricatore di un kalashnikov a breve distanza può abbattere un elicottero da milioni di euro, una bomba improvvisata da pochi soldi distruggere un veicolo blindato come il Lince. Fino a poco tempo fa non se ne sapeva neanche l’esistenza e la maggior parte degli italiani non era a conoscenza del fatto che nostri soldati partecipassero a operazioni e scontri di questa portata: ora operano a stretto contatto e coordinamento con le forze speciali alleate.
Sono schierati a Farah, una delle zone più insidiose sotto il comando italiano. E nel settore ovest a Herat. Il comandante della TF45 ammette che l’armamento visto nei film americani è indietro di circa cinque anni dalla realtà operativa ma come spiegato sopra tutto questo può non bastare. Ma cosa spinge questi uomini a intraprendere un simile lavoro? “Il tricolore”, questa parola esce dalla bocca del comandante, a molti può sembrare strano ma queste persone tengono molto alla nazione che rappresentano, di sicuro in molti storceranno il naso e giudicheranno il tutto retorico. Non entrando nel merito però di giudizi colpisce l’estrema umiltà di queste persone, chi immagina dei “rambo” è fuori strada, è la testa a essere forte, il fisico, pur fondamentale, viene dopo. La compagnia è una congregazione, questi militari sono come fratelli, passo a passo, braccio a braccio come legionari, consci che per sopravvivere devo ragionare come una persona sola. L’addestramento è durissimo, diventa incursore solo chi ha nervi saldi e ragionamenti svelti. La TF45 inoltre ingloba il meglio del meglio, i migliori tra i migliori. Gli osservatori stranieri (americani su tutti) apprezzano tantissimo e, infatti, mandano di continuo istruttori in Italia ad aggiornarsi. In Italia molti ignorano, anzi forse di questi uomini qualcuno non va fiero, abituati come siamo a giudicare ideologicamente anche le faccende militari dimenticando tutto ciò che ne consegue. Curiosamente la Task Force prese corpo durante un governo di sinistra, correva l’anno 2006.
Si diceva che gli italiani fossero un popolo di poeti, navigatori e, possiamo aggiungere, di forze speciali. Del resto il concetto di “soldato speciale” lo si deve ai comandi italiani (primi a pensarci nel mondo) durante la Grande Guerra, che crearono il corpo degli Arditi. Ben rifocillati, allenati e con molte licenze, questo il trattamento riservato agli Arditi che però spesso andavano all’assalto letteralmente in mutande (nel Piave nuotare vestiti era rischioso…) e con il pugnale tra i denti. Gli incursori poi evolsero nei reparti della marina e fecero molto male agli inglesi a Gibilterra e Alessandria d’Egitto. I nostri reparti furono studiati e copiati dagli anglosassoni e dai francesi a guerra conclusa andando sempre più raffinandosi. La loro forza? La scarsa pubblicità mediatica. Quasi in anonimato sono stati impiegati in Libano, Somalia, Darfur, Iraq, Albania, Kosovo, Algeria, Marocco, Sudan, Filippine, Malesya e perfino come osservatori in Colombia. Visto che gli italiani poco sanno, è giusto lasciare agli stranieri un giudizio sulla Task45:
«Non voglio rivelare dettagli. Posso solo dire che ho potuto osservare il lavoro e la professionalità di quella squadra (n.d.r.: Task Force 45). Credo che gli italiani sarebbero orgogliosi dei loro soldati.»
(Comandante Stanley A.McChrystal, generale statunitense, a capo dell’Isaf e dalla U.S. Forces in Afghanistan nel 2010)