Dopo avervi raccontato della vita e dell’opera della grande artista tedesca Käthe Schmidt Kollwitz, oggi vorrei concentrarmi su un italiano morto nel 2003 che come artista, pittore e scultore ha influenzato notevolmente l’arte povera, ovvero quel movimento artistico sorto proprio nella nostra penisola nella seconda metà degli anni sessanta dello scorso secolo. Si tratta di Mario Merz, milanese di nascita ma cresciuto a Torino, dove per due anni frequenta la facoltà di medicina all’Università degli Studi del capoluogo piemontese. Durante la seconda guerra mondiale entra nel gruppo antifascista Giustizia e Libertà, un movimento politico liberal-socialista fondato a Parigi nell’agosto del 1929 da un gruppo di esuli antifascisti, tra cui emerse come leader lo storico e giornalista, nonché politico Carlo Rosselli. Durante un volantinaggio nel 1945 Merz viene arrestato e in seguito alla liberazione inizia a dedicarsi a tempo pieno alla pittura incoraggiato dal critico d’arte, gallerista ed editore italiano Luciano Pistoi. Inizia prima con degli oli su tela, seguendo uno stile astratto-espressionista per poi passare a un trattamento più informale del dipinto. 14 anni dopo la fine della guerra viene allestita presso la Galleria “La Bussola” di Torino la sua prima personale, e a metà degli anni sessanta, inizia a sperimentare materiali diversi, come i tubi al neon, con cui perfora la superficie delle tele per simboleggiare un’infusione di energia, oppure il ferro, la cera e la pietra, con cui sperimenta i primi assemblaggi tridimensionali, le “pitture volumetriche”, abbandonando temporaneamente il metodo tradizionale. Fin dagli esordi dell’arte povera e dalle prime mostre è presente assieme agli altri artisti che partecipano alla collettiva organizzata da Germano Celant, storico dell’arte e curatore italiano, noto per aver coniato la definizione di “arte povera”, alla Galleria “La Bertesca” di Genova nel 1967. Presto diviene un punto di riferimento degli esponenti dell’importante movimento formato da Michelangelo Pistoletto, Giuseppe Penone, Luciano Fabro e altri che si riuniscono presso la Galleria torinese di Gian Enzo Sperone. Fortemente influenzato dal clima del ’68 e dall’idea di un rinnovamento politico, Merz riprodurrà con il neon gli slogan di protesta del movimento studentesco. A partire da quegli anni inizia a realizzare strutture archetipiche come gli Igloo costruiti con materiali più disparati, che divengono caratteristiche della sua produzione e che rappresentano l’assoluto superamento, da parte dell’artista, del quadro e della superficie bidimensionale. Dal 1970 introduce nelle sue opere la successione di Fibonacci come simbolo dell’energia insita nella materia e della crescita organica, collocando le cifre realizzate al neon sia sulle proprie opere, sia negli ambienti espositivi, come nel 1971 lungo la spirale del museo di arte moderna e contemporanea “Guggenheim” di New York, nel 1984 su un monumento di Torino, situato a nord-est del centro storico, detta la Mole Antonelliana, nel 1990 sulla Manica lunga dell’ex residenza sabauda, successivamente Museo d’Arte Contemporanea, il castello di Rivoli, nel 1994 sulla ciminiera della compagnia elettrica Turku Energia a Turku, in Finlandia, e inoltre sul soffitto della stazione metropolitana Vanvitelli (Napoli) nel quartiere Vomero. Nel 1992, nell’atrio della stazione centrale di Zurigo, installa “L’uovo filosofico” costituito da spirali rosse realizzate con tubi al neon e animali sospesi recanti i numeri della successione di Fibonacci. Merz non mollerà definitivamente la pittura, difatti alla fine degli anni settanta riprende a dipingere grandi immagini di grandi animali come coccodrilli, rinoceronti e iguane su tele debitamente non incorniciate di enormi dimensioni. Mario Merz è uno dei più importanti esponenti dell’arte povera italiana, oltre che uno dei più straordinari artisti italiani della seconda metà dello scorso secolo apprezzato in tutto il mondo. Solo per ricordare alcune rassegne importantissime dedicate al grande maestro dai più prestigiosi musei del mondo, vorrei citare: il Walker Art Center di Minneapolis nel 1972; il Museum of Contemporary Art di Los Angeles e il Solomon R. Guggenheim Museum di New York nel 1989; il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 1990 e naturalmente la Fundación Proa di Buenos Aires nel 2002.