Meno del 7% dei ricercatori che hanno prestato servizio nelle università italiane negli ultimi dieci anni è stato assunto. Un dato allarmante, emerso da un’indagine promossa dalla Flc Cgil e presentata ieri alla Sapienza di Roma. Tante ore in laboratorio o in aula a fare docenza al posto del professore di cattedra tra poche garanzie e stipendi da fame. E con un’unica certezza: in nove casi su dieci le università dove hanno lavorato anche per diversi anni non li ha voluti.
L’indagine sui percorsi di vita e di lavoro nel precariato universitario, condotta da un’equipe di ricercatori di diversi atenei italiani, è frutto di un poderoso lavoro di analisi dei dati del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca sui contratti dei ricercatori precari degli ultimi 10 anni, arricchito dalla raccolta di interviste (on line e de visu) per approfondimenti qualitativi.
L’indagine mette in luce in particolare che tra il 2003 e il 2013 i contratti precari della ricerca – tra tempo determinato, assegni di ricerca, co.co.pro e post-doc – sono quasi raddoppiati, passando da 18.000 nel 2003 a 31.000 nel 2013. Una scelta, questa, fatta dai nostri atenei di fronte al continuo blocco del turn over e alla riduzione costante dei fondi a disposizione. A conti fatti in questo stesso decennio nelle Università italiane hanno lavorato con contratti precari oltre 65.000 ricercatori. Di questi più del 93% è stato espulso dal sistema universitario, e vanno dunque a disperdersi forze lavoro qualificate e competenze acquisite nel corso degli anni. Circa il 6,7% è stato invece assunto.
Da quanto è emerso nel corso dell’indagine, i ricercatori precari hanno una età media di 35 anni, in maggioranza sono donne (57%) e nel 70% dei casi non hanno figli. Per questi ricercatori il numero medio di contratti accumulati è di 6,2. Ma ben il 10,4% ne ha avuti addirittura tra 13 e 31. Una precarietà che influisce sul lavoro visto che l’84,3% considera il proprio lavoro accademico influenzato dalla situazione contrattuale e il 43,8% avverte di non riuscire a dare continuità al proprio lavoro di ricerca. Non è quindi una sorpresa leggere che il 60% dei dottorandi intervistati considera molto o del tutto probabile la possibilità di lasciare l’Italia per lavorare all’estero in ambito accademico.