Dopo sevizie inaudite i superstiti cantarono il Nabucco all’uscita dal Lager
Michele Mangano novantaduenne, internato in più campi nazisti, racconta al nostro giornale www.buongiornosuedtirol.it.
Il 24 febbraio 1945, quarantaquattro ufficiali italiani internati nel campo di sterminio di Unterlüss in Germania facenti parte di un gruppo di 214 militari italiani che si erano rifiutati di riconoscere la Repubblica Sociale Italiana (RSI) – erano transitati anche per il lager di via Resia a Bolzano – si offrirono volontariamente alle SS affinché risparmiassero 21 loro compagni che si erano ribellati, e per questo condannati a morte.
Per approfondire quei fatti e grazie all’aiuto della prof.ssa Casavola dell’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati) abbiamo contattato uno di quegli eroi sopravvissuti, ancora vivente. Si tratta di Michele Mangano di 92 anni, allora tenente. Cortesissimo si rende subito disponibile telefonicamente a ripercorrere per il nostro giornale www.buongiornosuedtirol.it quei drammatici giorni. Montagano è nato il 27 ottobre 1921 a Casacalenda (Campobasso) ove oggi vive. E’ laureato in legge ed è un funzionario di banca in pensione. E’ Presidente Nazionale Vicario dell’A.N.R.P. (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) ed è stato insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Signor Michele, dove si trovava l’8 settembre del ’43?
L’8 settembre 1943 prestavo servizio militare nel XXII settore GAF di Idria. Sono stato catturato dai nazisti il 10 settembre 1943 e internato per 17 mesi nei campi nazisti in uno dei quali insieme a mio padre, anche lui prigioniero e che per motivi di età non se la sentì poi di seguire il mio esempio. Dal 24 febbraio al 9 aprile 1945 fui deportato nel campo di sterminio di Unterlüss in Germania.
Quali sono i suoi ricordi di quella mattina nella quale Lei ed altri suoi compagni decideste di offrirvi alla morte al posto di altri?
Fummo separati dai compagni, e mentre eravamo nell’attesa della nostra sorte le reazioni erano molto diverse; si pensava alla famiglia, si pensava al Paese. Solo sul far della sera apprendemmo che la pena della fucilazione era stata commutata nel carcere a vita, da scontare nel campo di “rieducazione al lavoro”, (come eufemisticamente veniva chiamato lo Straflager KZ di Unterlüss), dove il giorno dopo fummo trasferiti.
Quale fu il suo primo impatto nel campo di concentramento?
Davanti alla baracca ci attendeva il Lagerführer. Accanto a lui c’erano un maresciallo delle SS, armato di un grosso bastone, e due aguzzini con in mano tubi di gomma. A tutti furono strappati rabbiosamente gradi e stellette. Per più di tre ore ci fecero correre in carosello, come i cavalli nei circhi, mentre bastone e tubi di gomma si abbattevano sulle nostre schiene e sulle nostre teste e il capo continuava, sghignazzando, a sparare in basso colpi di pistola.
A mezzanotte, stremati e congelati, ci fecero entrare nella buia e lurida baracca, dove fu impossibile trovare un posto per sdraiarci. Alla sveglia ci rendemmo conto in quale girone infernale erano capitati . Centinaia di persone stremati dalla fatica e dalla fame si accapigliano per il poco cibo che la Gestapo lanciava loro e continuamente si grattavano per le punture incessanti dei pidocchi che si trovavano ovunque, anche sul pane.
Si, nell’altra parte della baracca, separate dal muro dell’unica latrina, erano rinchiuse centinaia di donne, in prevalenza ebree, ammalate e ferite. Spesso si sentivano urla, grida, imprecazioni: di notte cantavano a bassissima voce dolorose nenie, in una lingua sconosciuta.
Com’era la vita giornaliera nel lager. Come venivate trattati?
Ricordo gli urli con i quali venivano impartiti gli ordini urlati in un tedesco incomprensibile, talvolta in russo. L’indecisione nella esecuzione provocava una pioggia di frustate.
Per qualsiasi mancanza, la pena era sempre la stessa. Nei primi giorni fummo adibiti a lavori di sterro nel campo. Poi venimmo portati nello scalo ferroviario dove dai treni scaricavano carri e materiale bellico da mimetizzare e riparare. Per undici ore consecutive lavoravamo nel fango, sempre sorvegliati dalle SS armate di bastoni di cuoio che si abbattevano sulle nostre schiene incessantemente. Durante il lavoro, mai un riposo, mai un tozzo di pane, solo qualche pugno di neve che dava la sensazione di masticare qualcosa. Quella volta che riuscivamo a trovare delle patate marce, dovevamo nasconderle nelle bustine e nelle camicie piene di pidocchi che spesso mangiavamo con le bucce. Eravamo diventati degli accattoni, o peggio dei cani randagi. Le fatiche erano rese insopportabili per il freddo, le continue percosse e l’assoluta mancanza di cibo. I più deboli e i malati, erano presi di mira. Vidi uno dopo l’altro i miei amici morire.
Ricorda un episodio particolare che non ha mai dimenticato ?
Ricordo in particolare una notte al buio, nella corsa verso la lurida latrina, un giovanissimo soldato olandese cadde a terra. Al buio, inconsapevolmente tutti camminarono sul suo povero corpo. La mattina lo trovarono agonizzante, sfigurato dagli zoccoli. Quel biondino, che i superstiti ricordano ancora con pena e tanto senso di colpa, fu buttato, ancora in vita, nella fossa comune.
Che cosa successe negli attimi prima della liberazione?
Lo scontro finale si avvicinava e si sentivano le cannonate. Nella seconda settimana di aprile del 1945 il comando tedesco ordinò di eliminare ogni traccia dello Straflager, e il Lagerführer decise di smembrare il campo e lasciar andare gli ufficiali con un lasciapassare come lavoratori liberi. Con precisione burocratica, tutta tedesca, restituì anche le cose a noi sequestrate il giorno dell’ingresso nel campo, a mano a mano che si passava davanti a lui, e pretendeva che si gridasse: “Heil Hitler”. Per l’ultima volta con quel poco di voce che mi era rimasta, sprezzantemente risposi “NEIN”. Caddi svenuto a terra perle tantissime bastonate che mi diedero.
Per punizione, quando mi ripresi, fui costretto insieme con altri, a svuotare il pozzo nero delle latrine delle ragazze ebree e trasportare il carico, con una carriola, fino al fiume.
Al momento della partenza, alla richiesta di un tozzo di pane, gli ex carcerieri come ultimo atto di disprezzo, pretesero che si cantasse una canzone di commiato. Dopo un attimo di raccoglimento, tutti insieme, come per incanto, intonammo il Nabucco di Verdi, in segno di gioia e di speranza per il futuro.
Dopo aver vagato alcuni giorni, incontrammo gli alleati che ci salvarono e ci portarono negli ospedali, perché affetti da tifo petecchiale, da tubercolosi, da ferite infette e purulenti. Tornammo nel campo di Wietzendorf dove attendemmo il turno del rimpatrio. Io rientrai in Italia alla fine di agosto del 1945”.