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Regime dei minimi e regime forfettario. Quando conviene e di cosa tenere conto.

25 Gennaio 2017

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Regime dei minimi e regime forfettario. Quando conviene e di cosa tenere conto.

Intervista esclusiva a Riccardo Alemanno.  

di Dario Tiengo – Riccardo Alemanno, tributarista e revisore legale, Presidente dell’Associazione  INT (Istituto Nazionale Tributaristi) e Vicepresidente vicario di Confassociazioni ha una lunga esperienza costruita “sul campo”.  Attento osservatore delle dinamiche che riguardano l’impresa e i professionisti è un esperto di  partite iva. Abbiamo chiesto a lui di chiarire i vantaggi del regime forfettario. Accompagnati da alcuni preziosi consigli.

Regime dei minimi e regime forfettario. A chi conviene sceglierlo?

Attualmente,  relativamente ai regimi agevolati,  si può utilizzare solo il regime forfettario che è un regime naturale, perché quello dei minimi è utilizzabile solo da chi lo aveva lo scorso anno. La legge di stabilità 2016 lo ha mantenuto esclusivamente per chi era già in quel regime, quindi per 5 anni o fino al raggiungimento del 35mo anno di età.

Perché scegliere il regime forfettario

Ci sono sicuramente elementi a favore, come l’alleggerimento degli adempimenti contabili e la riduzione dei costi da tassazione. Chi inizia un’attività nel regime forfettario ha, per i primi 5 anni, il 5% come imposta sostitutiva. Comparato anche solo con le aliquote Irpef, la differenza è evidente.

Conviene a tutti?

Come con gli altri regimi contabili, è necessario fare dei calcoli misurati sulla singola persona e attività. Essendo un’imposta sostitutiva, non c’è la possibilità di andare a detrarre i carichi di famiglia o gli oneri deducibili. Quindi, se un soggetto ha degli importanti oneri deducibili o dei familiari a carico, applicando il regime forfettario dovrà rinunciare a quelle detrazioni di imposta. Si devono, poi, fare le valutazioni in base al tipo di attività. Se si tratta di un’attività che prevede costi importanti, è evidente che si debba compararli a quelle che sono le percentuali di forfettizzazione dei ricavi, che variano a seconda della tipologia dell’attività stessa.

Non è una scelta automatica, quindi?

Chiaramente, per chi inizia un’attività, in linea di massima sono a favore del forfettario, quantomeno per il primo anno. Poi, se si superano le soglie di limite di reddito o altri paletti che impediscono di proseguire quel tipo di regime, evidentemente si applicherà il regime ordinario o normale che dir si voglia. La questione riguarda anche chi volesse svolgere una nuova attività e svolga già un’attività di lavoro dipendente o abbia un assegno pensionistico. C’è un primo limite: il reddito derivante da lavoro o pensione non deve superare i 30 mila euro annui lordi, perché se supera quella soglia non può accedere al regime forfettario. Abbiamo chiesto che questo limite venga eliminato, perché evidentemente il pensionato o il lavoratore dipendente che volesse svolgere un’attività accessoria…

Quello che una volta si chiamava secondo lavoro…

Esattamente. Dovrebbe poterlo svolgere indipendentemente da quello che è l’assegno pensionistico – che si sarà guadagnato con il versamento dei contributi e dal lavoro dipendente – perché magari ha necessità o esigenze famigliari di avere un ulteriore reddito. Se questi soggetti aderiscono, invece, a un regime ordinario al di là di avere una tassazione maggiore quel reddito viene a sommarsi a quello da lavoro dipendente o di pensione e quindi l’effetto delle aliquote progressive dell’Irpef diventa estremamente pesante.

In questo regime, quindi, il reddito derivante dall’attività non viene  sommato ad altri?

Il regime forfettario, essendo tassato con imposta sostitutiva, non si va a sommare ad altri eventuali redditi. Prendiamo, ad esempio, il soggetto che gode di un reddito da locazione. Se fosse in un regime normale, andrebbe a sommarsi al reddito da lavoro professionale o d’impresa. Nel regime forfettario questo non avviene, perché non c’è assimilazione, essendo un reddito tassato Irpef. Rimane il limite, per chi ha già un reddito di 30mila euro lordi (sia per chi ha pensione sia chi reddito da lavoro).

E’ uno strumento che può essere utile ai giovani?

Sicuramente. E’ già molto utilizzato anche dai giovani professionisti, perché evidentemente all’inizio hanno agevolazioni di tassazione e di costi. Anche il costo di un consulente per la contabilità è estremamente ridotto. Non sono previste le scritture contabili anche se è sempre bene avere sott’occhio sia gli acquisti – perché le fatture ancorché non deducibili vengono emesse da fornitori che vengono a contatto con i soggetti forfettari – sia soprattutto le fatture o i corrispettivi emessi. Va tenuto sotto controllo anche il livello di ricavi. Questo per  monitorare un eventuale passaggio al regime ordinario l’anno successivo, perché le soglie previste per le singole tipologie di attività d’impresa o professionale sono state superate

Togliere il limite dei 30mila euro cui accennava è un obiettivo importante per il superamento del lavoro in nero?

Esattamente, soprattutto riguardo a pensionati e lavoratori dipendenti. Con la legge di stabilità 2016 c’era già stato un miglioramento rispetto all’anno precedente. Prima il limite era legato al fatto che l’attività di lavoro autonomo o d’impresa in regime forfettario fosse superiore al reddito di lavoro dipendente o all’assegno pensionistico. E’ stata poi modificata introducendo il non superamento del tetto dei 30mila euro, un miglioramento che ha permesso ad alcuni soggetti di utilizzare questo regime forfettario agevolato. Tuttavia, occorre migliorare ancora.

Come?

Abbiamo chiesto che i limiti rispetto al reddito da lavoro dipendente e di pensione venissero esclusi. Ce ne sono anche altri, come quello di non avere beni strumentali per un importo superiore a 20 mila euro. Si tratta di attività che impieghino pochi mezzi e abbiano costi relativi. Se ho tanti costi, anche se inizio l’attività probabilmente non mi conviene il regime forfettario perché, ad esempio, per investimenti fatti per un esercizio o due esercizi, vado in perdita. Se sono in regime ordinario, godo delle perdite e quindi non avrò tassazione mentre nel regime forfettario vengo comunque tassato, essendoci una forfettizzazione dei costi deducibili. Insomma, vanno fatte delle attente analisi.

Ci sono altri elementi a cui prestare attenzione?

Non è necessario avere i registri. La legge non lo prevede. Non c’è l’applicazione della ritenuta d’acconto anche per attività professionali, e quindi non ci saranno dichiarazioni da presentare come il modello 770. Ovvero il riassuntivo delle ritenute versate. Ma in sede di dichiarazione dei redditi vanno indicati alcuni costi, come i rapporti con soggetti a cui potenzialmente si dovrebbe applicare la ritenuta, che vanno indicati in appositi righi. Quindi alcuni dati contabili devono essere inseriti comunque in dichiarazione. Per queste ragioni è bene che almeno ogni tre, sei mesi si faccia ordine con metodo. Altrimenti ci si trova a fine anno con problemi nella compilazione della dichiarazione dei redditi.

A conti fatti, che giudizio dà sul regime forfettario?

Non è una panacea. Ma non esiste un regime che sia la panacea delle difficoltà burocratiche. In molti casi è un buon regime, da sfruttare positivamente per chi inizia un’attività e questo indipendentemente dall’età. Chi inizia un’attività – giovane o meno giovane che sia – ha sempre le stesse difficoltà. Ovviamente, un regime che sia premiante nella riduzione dei costi e nella non applicazione degli studi di settore, permette a chi inizia attività o ha certi livelli di ricavo di essere meno angustiato dalla burocrazia contabile che effettivamente a volte eccede un po’ in quelle che sono le ragioni di avere una contabilità. I soggetti forfettari, non essendo soggetti Iva, sono al di fuori degli adempimenti normali. Esclusi anche dallo spesometro.

Se vuole una valutazione complessiva e sintetica sul sì o no al regime forfettario, propendo decisamente per il sì.

Parlando delle partite Iva in generale, pensa ci sia attenzione sufficiente da parte del governo?

Uno degli ultimi atti rispetto alle partite Iva – che sono soggette ai contributi della gestione separata – è stato quello della riduzione dell’aliquota dal 27 al 25%. Detto così (due punti in percentuale) può sembrare poco e probabilmente lo è, ma il vero valore è stato quello di scongiurare l’aumento sino al 32%, previsto dai provvedimenti precedenti, che sarebbe stato disastroso. Attualmente, c’è ancora in discussione il disegno di legge sul lavoro autonomo, che dovrebbe, ad esempio,  dare delle opportunità alle lavoratrici autonome con partita Iva, con gestione separata, in termini di maternità e di congedo parentale e permettere una maggiore detrazione dei costi collegati all’aggiornamento professionale. Purtroppo bisogna segnalare che all’interno del ddl sono state inserite, non presenti nella prima scritturazione, norme che oltre a burocratizzare ancora di più la vita dei contribuenti,  tengono solo conto del settore professionale ordinistico e non di quello  associativo, come puntualmente Confassociazioni ha evidenziato nell’ambito dell’audizione parlamentare in Commissione Lavoro. Un ddl che si sta snaturando rispetto agli originari obiettivi.

Complicato seguire il tutto. La semplificazione dove sta?

Le varie norme, che nel tempo si sono susseguite, hanno creato una sorta di sedimentazione. Anno dopo anno si è creato un carico burocratico. Il nostro sistema fiscale è complesso. E’ giusto perseguire la semplificazione ma facendo attenzione a non usare la scimitarra. Potrebbe andare a detrimento dell’equità e soprattutto la recente storia della semplificazione fiscale insegna che la soppressione di alcuni adempimenti è stata poi seguita dall’introduzione di altri obblighi anche più complessi.

Ma la complicazione non viene a favore dei professionisti? Con tutti gli adempimenti, norme e cavilli ci si perde e si deve ricorrere a un professionista, non crede?

E’ un luogo comune che non corrisponde a verità. I professionisti (del settore tributario contabile) nell’immaginario c ollettivo sono quelli che dovrebbero godere della complicazione ma, ahimè, non è così. Anche perché si perde quello che è il valore del proprio mestiere professionale, che è quello della consulenza, per diventare compilatori di modulistica.

Se al mio cliente invece di fare 30 telefonare all’anno per dire c’è da versare… c’è da presentare… ho il tempo di fare della consulenza anche per aiutarlo a pianificare i costi o analizzare i costi di impresa o le opportunità di detrazione, nell’ambito della correttezza e del rispetto della norma, probabilmente il mio cliente sarà anche più contento di pagarmi la parcella anziché vedere in me un “avvisatore” di scadenze di versamento.

Alla fine c’è il rischio di diventare anche antipatici…

Assolutamente sì! C’è anche il rischio che qualcuno creda che prendiamo delle percentuali, invece  siamo intermediari a costo zero per lo Stato. La complicazione penalizza l’azienda ed anche il consulente.

Riccardo Alemanno è Vice Presidente Vicario con delega alle Relazioni Istituzionali di Confassociazioni. Tributarista e revisore legale. Nel 1984 intraprende l’attività professionale nel settore tributario. Nel 1987 è presidente provinciale della Lapet, guidata da Giusepe Oca, nel 91 entra in Consiglio Direttivo e poi ne diventa Segretario nazionale. Dal 1995 è iscritto nel Registro dei Revisori Legali.  Dal 1997 è Presidente Nazionale dell’INT, Istituto Nazionale Tributaristi. Nel 2006 è stato insignito dal Presidente Giorgio Napolitano dell’Onorificenza di Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana. E’ Presidente dell’UNITRE ed è stato Assessore al Bilancio e Patrimonio della Città di Acqui Terme, membro dell’Osservatorio sulle professioni del CNEL, Presidente della società Sistemi Spa, Vice Presidente della società Nuove Terme, membro del Tavolo tecnico permanente e del Gruppo di lavoro su Bilancio e spesa pubblica del MEF. E’ membro di Collegi sindacali di varie società.

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